Una premessa è d’obbligo: non ho nulla contro il Movimento 5 stelle, che reputo anzi un fenomeno politico molto interessante, meritevole di attenzione e di rispetto.
Quelle che esporrò qui sono soltanto alcune prime riflessioni che scaturiscono dall’analisi degli eventi che si sono verificati negli ultimi giorni: le elezioni siciliane, le successive reazioni e la crescente presenza degli esponenti del movimento fondato da Grillo nelle cronache politiche.
Sono riflessioni di chi, con le poche e forse obsolete categorie concettuali di cui dispone, tenta di capire cosa gli stia succedendo intorno.
Il punto di partenza è l’e-mail che qualche giorno fa la sezione milanese del Movimento 5 stelle ha inviato al Sole 24 ore per chiedere la correzione del titolo di un articolo ivi pubblicato in cui veniva definito il movimento come un “partito”.
Due i passaggi fondamentali.
Il primo. Gli autori della mail chiedono la collaborazione dei giornalisti per la proposizione di un nuovo “glossario adatto alla portata del cambiamento che il M5s propone”. Di tale glossario non dovrebbero far parte parole come “partito” e “leader”; piuttosto, sarebbe corretto riferirsi al movimento come a una “forza politica” e agli eletti come “portavoce”.
Il secondo. Gli stessi autori della mail, che si autodefiniscono “attivisti 5 stelle”, rifiutano l’etichetta di “grillini”, “scorretta e anche un po’ offensiva, in quanto riduttiva e verticistica”. Grillo sarebbe soltanto il “megafono” al loro servizio e non il loro leader.
Partiamo dal primo passaggio.
Siamo sicuri che un glossario del quale facciano parte espressioni come “forza politica” e “portavoce” sia davvero originale?
La formula “forza politica” non è affatto nuova. Nel panorama giuridico italiano si rinviene già in uno studio di un insigne costituzionalista siciliano, Temistocle Martines, pubblicato nel lontano 1957, dal titolo Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche.
Sulla base delle categorie elaborate dalla dottrina giuridica tedesca, Martines distingue due accezioni della formula “forza politica”: nella prima, l’espressione indica “un determinato gruppo di uomini, dotato di un’organizzazione, e la cui attività si prefigge come fine la trasformazione della realtà politica in realtà giuridica”; nella seconda, denota “il risultato di tale attività, la porzione di influenza che, entro il sistema, un determinato gruppo di uomini od – in senso lato – un organismo riesce ad esercitare sull’ordinamento”.
Appare evidente come il significato che rileva nel nostro caso sia il primo, quello, per così dire, soggettivo.
Il Movimento 5 stelle viene definito dai suoi attivisti una “forza politica”, ossia un gruppo organizzato di persone che tendono a trasformare la realtà politica in realtà giuridica. E in che modo? Esattamente come tutte le altre forze politiche: partecipando alle elezioni amministrative e politiche, insediandosi negli uffici degli organi politici e utilizzando tutti gli strumenti della democrazia rappresentativa (oltre che di quella diretta e di quella partecipativa).
Che differenza c’è allora, da questo punto di vista, con le forze politiche per eccellenza, vale a dire i partiti? Direi nessuna.
Ma questa non vuole essere affatto una critica nei confronti del movimento.
La Costituzione italiana affida un compito molto importante ai partiti: quello di costituire il mezzo attraverso cui i cittadini possono concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. L’omogeneità rispetto ai partiti, anche solo sul piano delle iniziative e delle attività svolte, consente di collocare il Movimento 5 stelle entro la cornice istituzionale della democrazia repubblicana. Dal punto di vista della legalità costituzionale non è un difetto, ma un pregio.
Nell’e-mail, tuttavia, gli attivisti del movimento, prendendo le distanze dai partiti, finiscono con il condannare, integralmente e senza appello, i principi basilari della democrazia rappresentativa.
Per loro non ci sono leaders, ma soltanto portavoce. Il che significa adottare un’idea fantascientifica di rappresentanza politica.
Quest’ultima non nasce certo con la democrazia. Almeno con la democrazia come la intendiamo oggi.
Il paradigma della rappresentanza politica si affermò e si diffuse nello Stato liberale del XIX secolo, nel quale non votavano tutti, non era previsto il suffragio universale. Il diritto di elettorato (attivo e passivo) spettava solo agli uomini e, per di più, era limitato per censo e per istruzione. In un sistema del genere, nel quale a votare e ad essere votata era una minoranza della società, il livello di corrispondenza tra le decisioni prese dai rappresentanti e gli interessi dei loro elettori era tendenzialmente molto elevato.
Questi ultimi erano chiamati infatti a scegliersi i rappresentanti (qui sì che potrebbe dirsi i “portavoce”) tra persone delle quali condividevano condizioni patrimoniali e sociali e che ne conoscevano bene ed erano in grado di soddisfarne bisogni ed esigenze.
Le cose cambiarono con l’estensione del suffragio.
Nel momento in cui lo stesso rappresentante viene scelto da migliaia di persone diverse – uomini, donne, imprenditori, impiegati, operai, disoccupati ecc. –, come può egli svolgere il proprio mandato senza un minimo (ma direi molto più di un minimo…) di autonomia? Come può portare nei luoghi istituzionali tante voci tutte discordanti l’una dall’altra?
Mediare tra opposti interessi e assumere decisioni in modo indipendente, scontentando, se del caso, alcuni o tutti i propri elettori, sono operazioni necessarie, nel diverso contesto dello Stato pluriclasse, per evitare situazioni di stallo e di paralisi istituzionale. E non è questa una malattia passeggera della democrazia rappresentativa, ma una sua condizione di debolezza strutturale e permanente.
Come rileva ancora Martines, dalla presa di coscienza di tale debolezza della democrazia rappresentativa deriva l’esigenza d’introdurre anche altri strumenti di partecipazione (come il referendum, la petizione, l’iniziativa legislativa popolare ecc.).
La democrazia ha dunque bisogno di leaders. Non di megafoni. L’esigenza nasce proprio dal suffragio universale e dalla necessità di trovare una sintesi dei tanti configgenti interessi che possono essere rappresentati nell’ambito delle istituzioni democratiche.
In mano a tante persone che parlano in modi diversi e che dicono cose diverse il megafono si rivela uno strumento inservibile.
Venendo al secondo passaggio dell’e-mail, direi che non sembra vero, almeno allo stato dei fatti, che Grillo sia soltanto il “megafono” degli attivisti del suo movimento. Non è (e non può essere) così per motivi analoghi a quelli che ho esposto.
L’affermazione contenuta nell’e-mail riecheggia quanto si legge nell’articolo 4 dello Statuto del Movimento: “Il MoVimento 5 Stelle non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro. Esso vuole essere testimone della possibilità di realizzare un efficiente ed efficace scambio di opinioni e confronto democratico al di fuori di legami associativi e partitici e senza la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi, riconoscendo alla totalità degli utenti della Rete il ruolo di governo ed indirizzo normalmente attribuito a pochi”. Finalità palesemente anarchica. E utopica.
Sono esistite società politicamente organizzate in cui la totalità dei governati sia riuscita ad assumere il ruolo di governo e di indirizzo normalmente attribuito a pochi? Che io sappia, no. Forse un domani se ne potrà ammirare qualcuna, ma al momento non ci sono esempi.
Il governo è sempre stato di pochi. Nelle democrazie quei pochi vengono scelti dai molti e sottoposti al controllo di questi ultimi. E, tuttavia, a governare sono sempre pochi.
Sono esistite ed esistono piuttosto società che, dietro il riconoscimento e la promessa di condizioni felici di autarchia o di anarchia, hanno celato e celano forme reali di potere autoritario.
Dinamiche analoghe si rinvengono nelle formazioni sociali, nei grandi partiti e nei movimenti di massa. Ovunque ci siano organizzazioni umane, per governare occorre poter prendere delle decisioni. E non è possibile che tutti decidano sempre su tutto. O, quanto meno, non si è mai verificato.
La storia suggerisce di adottare una visione realistica del problema del governo.
In tale prospettiva, la sfida che il Movimento 5 stelle potrebbe cogliere, avvalendosi delle straordinarie risorse umane di cui dispone, è quella non già di azzerare la democrazia rappresentativa, ma di ripensarla sotto forma di democrazia elettronica, al servizio del cittadino. Una sfida che richiede un grande impegno e un’attenta riflessione. Anche sul linguaggio.
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