I dati della crisi italiana sono quelli di una agonia. Ancora oggi leggiamo che l’OCSE ci da per spacciati fino al 2060 con una crescita minima, mentre banche e istituti nazionali e internazionali ormai rappresentano un paese con un reddito procapite sempre più basso, con capacità di risparmio quasi azzerata e un patrimonio lasciato dalle generazioni precedenti sempre più ridotto.
Questo cupo scenario si aggiunge a ciò che sta creando una politica di austerità che impone regole rigide di rientro del deficit e parametri economici europei pensati quando il mondo era notevolmente diverso come all’epoca di maastrich.
Se le previsioni che leggiamo sono giuste avremo almeno due generazioni di italiani che vivranno in un paese che declina e che non avranno nemmeno idea di cosa significhi “crescita”, sará un concetto teorico a cui dovranno credere come si crede nel potere delle stelle cadenti di far avverare i desideri.
Il nostro paese è sottoposto ormai da molti anni ad una cura dimagrante dragoniana condotta con l’idea che appena passa “‘a nuttata” tutto tornerá come prima ma ormai è chiaro che “‘a nuttata” rischia di non passare più.
Le manovre di questi anni spesso hanno colpito con l’idea di dover raggiungere presto gli obiettivi di risparmio e non con quella di garantire la crescita nel futuro. Eppure proprio il lato debole della crescita ci impone di tagliare di più creando un circolo visioso che ormai sta strangolando la società.
Quello che più deve spaventarci non è una pressione fiscale insostenibile e un sistema produttivo in ginocchio, deve spaventarci il fatto che non ci sia un adeguato investimento nei pilastri della crescita.
Non stiamo investendo in formazione e innovazione ad esempio. Sulla formazione in particolare abbiamo bisogno di lavorare su due percorsi: da una parte mantenere aggiornate le conoscenze di chi è nel mercato del lavoro perchè esse deperiscono velocemente (in particolare quelle persone che non trovano lavoro o ne trovano uno “choosy” ma potrebbero tornare fondamentali nei momenti di ripresa); dall’altra costruire nuove figure che possano fornire il giusto know how tra qualche anno quando auspicabilmente il sistema produttivo le richiederá.
Lo skill shortage è un rischio enorme per un paese come il nostro che deve fare un salto enorme verso prodotti e soluzioni con innovazione elevata partendo da prodotti e servizi con bassa specializzazione. Oggi il nostro mercato del lavoro non è in grado di assorbire queste figure ma se vogliamo crescere dobbiamo cambiare la situazione. A quel punto se non abbiamo gli impianti produttivi del terzo millennio pronti (le persone) rischiamo di non poter produrre niente da vendere.
Dobbiamo investire sulla formazione e dobbiamo investire su un nuovo tipo di scuola e universitá, sul un nuovo modello formativo che metta insieme sapere umanistico e sapere scientifico/tecnico. Il modello di conoscenza olivettiano torna prepotentemente di scena nella sua capacitá di concepire la conoscenza funzionale alla persona e alla societá ricomponendo umanesimo e tecnologia.
Le persone non si formano in poco tempo e le persone di cui avremo bisogno necessitano anche di essere formate in modo diverso da come siamo stati formati noi. Sará necessaria una formazione continua e sará necessaria una formazione meno omologante, più attenta ai singoli e alle loro caratteristiche in grado di estrarre il miglior talento da ciascuno rafforzando le capacitá di costruire una conoscenza sociale. Basta questo per descrivere lo sforzo di cui abbiamo bisogno.
Dobbiamo concentrarci verso la formazione tecnica per fare in modo da formare sempre più persone in grado di maneggiare le tecnologie e trarne il meglio sia come utenti che come lavoratori. Una tecnologia sempre meno isolata dalla societá e dalla cultura perchè i prodotti tecnologici si interfacciano sempre più con gli uomini. Una tecnologia che richiede un livello culturale umanistico più ampio dei tradizionali confini della formazione tecnica e obbliga i percorsi umanistici a confrontarsi con la scienza e la tecnologia.
Dobbiamo ripensare il ruolo degli istituti tecnici industriali e delle università, concentrare nel sistema informativo molti degli investimenti e degli sforzi. Se gli anni ’80 e ’90 hanno visto il predominio dell’investimento in calcestruzzo nei prossimi anni dovrà essere la conoscenza il principale obiettivo su cui investire.
Gli istituti tecnici industriali possono diventare dei luoghi di formazione continua nel territorio e dei luoghi di formazione per le nuove generazioni.
Uno scenario di questo tipo ci impone di investire sempre nuove risorse nel sistema formativo, cambiare e innovare l’approccio, avviare sperimentazioni ma soprattutto avere una visione di insieme e di lungo periodo. Purtroppo negli anni passati governi maldestri si sono concentrati sul crocifisso in classe e sulla rimozione della storia scomoda.
Putroppo tutto questo non è ancora presente nell’agenda digitale italiana, scritta in tutta fretta e forse troppo condizionata dal quotidiano del nostro paese e da interessi di bottega e poco capace di ragionare sul futuro.