La famigerata “concezione proprietaria del partito”, della quale sono accusati in queste ore e per motivi diversi Antonio Di Pietro e Beppe Grillo, è un virus diffuso. Al punto che molti sintomi del fenomeno finiscono per risultare invisibili.
E’ chiaro che tutto si deve all’avvento dei partiti leaderistici che hanno caratterizzato la cosiddetta Seconda Repubblica, con la conseguente personificazione delle rispettive aree di consenso. Ormai tutti pensiamo alla politica proprio nei termini che questo fenomeno gli assegna. Più che all’Udc pensiamo a Casini, più che a La Destra facciamo riferimento a Storace, molto più che di Sinistra ecologia e libertà parliamo e scriviamo di Vendola.
Ci comportiamo in questo modo non perché siamo impazziti ma perché sappiamo benissimo che molte delle sigle di partito che popolano lo scenario politico non hanno alcun senso autonomo che vada al di là delle fortune o delle sfortune dei rispettivi leader. Ci sono certamente eccezioni, perché nessuno ha giustamente mai pensato che alla caduta in disgrazia di Bossi sarebbe seguita l’estinzione della Lega o che un cambio al vertice del Pd potesse determinare, di là dalle scissioni minoritarie, uno snaturamento di quel partito.
Quanto avviene nel Pdl manifesta platealmente l’estensione dell’infezione da “concezione proprietaria del partito”, e non tanto perché le disgrazie di Berlusconi abbiano sprofondato il Pdl nel baratro dei sondaggi, ma perché si vede che ogni possibilità di riscatto di quel movimento è da tutti individuata nella ricerca di un nuovo leader capace di rimettere in piedi la baracca. Il tramonto dei personaggi che hanno inaugurato questa stagione non determina quindi la fine del fenomeno. Questo gli sopravvive placidamente, e ancora più si rende evidente la dipendenza del sistema dai leader quando questi vengono meno.
Evidentemente non si deve confondere l’esercizio di una leadership, ancorché fortissima, con la concezione proprietaria dei partiti di cui abbiamo parlato sopra. Tale degenerazione riguarda molti, ma non coincide con le leadership in quanto tali.
Nella controversa puntata di Report dedicata a Di Pietro, il leader dell’Idv è stato chiamato nuovamente a difendersi dall’accusa di aver ristrutturato un immobile in via Merulana a Roma con i soldi del suo partito. Il punto è che l’accusa ritiene che in quell’immobile Di Pietro avesse stabilito dimora, mentre la difesa dell’ex pm rileva che in quell’immobile era fissata la sede del partito.
Al di là del merito, quello che colpisce è che molto verosimilmente quell’immobile potrebbe essere stato l’una cosa e l’altra: la sede del partito e anche la residenza del suo leader. Un’eventualità che, se verificata, non dovrebbe stupire se si considera quanto è divenuto personale l’esercizio della rappresentanza politica in questo Paese.
Un ultimo esempio. Pochi giorni fa un’indiscrezione, poi smentita da Berlusconi, riferiva di un’animata partita in corso nel Pdl nel corso della quale all’ostinazione di Alfano nel voler fare le primarie Berlusconi avrebbe opposto un secco “Io non le pago” (Il Pdl pare non abbia soldi per realizzarle). La frase è stata smentita, e va bene. Ma qui rileva il fatto che uno scenario del genere possa esser solo stato ipotizzato.