Main StreetL’Italia e il debito. L’esempio dell’Ecuador

Quello di lunedì fu il pomeriggio più lungo che io avessi mai vissuto. Lì da solo in ufficio, con la linea ininterrotta del distretto finanziario tutt’intorno, in attesa di una telefonata, mi parev...

Quello di lunedì fu il pomeriggio più lungo che io avessi mai vissuto. Lì da solo in ufficio, con la linea ininterrotta del distretto finanziario tutt’intorno, in attesa di una telefonata, mi pareva che ogni minuto fosse un’ora.
Le cose a cui pensare cominciarono ben presto a scarseggiare. Provai a far l’elenco dei paesi con il rating di tripla A: Australia, Canada, Danimarca, Finlandia, Germania, Olanda, Svezia, Regno Unito, Norvegia, Singapore…Mi fermai a dieci.
Feci la lista di tutti i Paesi, suddividendoli in quelli che conoscevo, quelli che trovavo interessanti sotto vari punti di vista, quelli che avrei voluto conoscere meglio, se ne avessi avuto l’occasione.
Passai infine in rassegna l’Ecuador.
L’Ecuador mi sorprese quando nel dicembre 2008 decise di non rimborsare i sottoscrittori dei suoi titoli di Stato per 3,2 miliardi di dollari, considerando il default come la reazione popolare a un debito pubblico “illegittimo” e “immorale”, frutto del saccheggio internazionale di banche e altri speculatori.
Ho sempre trovato abbastanza singolare che un paese che produce circa 500 mila barili di petrolio al giorno, che grazie al greggio copre quasi la metà delle entrate statali si sia trovato così spesso in crisi di liquidità. Quella degli anni novanta portò all’adozione del dollaro americano come divisa ufficiale. Quella attuale è legata al calo dei prezzi del petrolio e a un aumento stimato del 9% della spesa pubblica nel 2012, a 26 miliardi di dollari, corrispondenti a circa il 36% del prodotto interno lordo.
Dal default, essendo precluso l’accesso al mercato obbligazionario internazionale, l’Ecuador ha fatto ricorso a una linea di credito da oltre 7 miliardi di dollari messa a disposizione dall’amica Cina, a tassi inferiori a quelli di mercato, o da aziende cinesi come PetroChina in cambio di forniture di greggio. Ha inoltre aumentato le tasse sulle imprese, incluse ovviamente le banche e le compagnie produttrici di petrolio, per finanziare il disavanzo. E oggi il paese sta pensando di tornare sul mercato, ma per far questo dovrà pagare non meno del 9% di interessi annui agli eventuali sottoscrittori di titoli. Il debito ecuadoregno è, infatti, il terzo più rischioso dopo quelli di Venezuela ed Ucraina, tra i 15 mercati emergenti monitorati da JP Morgan attraverso il suo indice EMBI.
A conti fatti, pensai, il default non deve esser stato un grosso affare. Vi state chiedendo perché passare in rassegna l’Ecuador? Presto detto.
Beppe Grillo, il leader del secondo partito italiano, che definisce il suo Movimento 5 Stelle come “l’ultima speranza di una rivoluzione senza violenza”, cita spesso l’Ecuador, nei comizi e nelle interviste, come esempio da seguire per un eventuale default dell’Italia. Un paese con circa 1.600 miliardi di debito pubblico negoziabile (su un totale di circa 2.000 miliardi), oggi per il 70% in mani italiane. Considerai lì per lì la proposta una boutade, più divertente che spaventosa. Ed evitai di ragionare sulle conseguenze – una su tutte: la fuga di capitali dal nostro paese – di un default di tale portata.
Mi resi conto, con un certo sgomento, di avere qualche dubbio: gli italiani votano Grillo perché vogliono il default o per mandare in frantumi il sistema. Non è che le due cose sono legate a doppio filo e, con il loro, il posto dell’Italia nel mondo globale?

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