La democrazia e i suoi derivatiIl decreto Ilva e le vie lastricate di buone intenzioni

La via per l’inferno, si sa, è lastricata di buone intenzioni. Si dovrebbe sempre tenere a mente questa perla di saggezza popolare quando si parla di princìpi. Specialmente di princìpi costituzion...

La via per l’inferno, si sa, è lastricata di buone intenzioni. Si dovrebbe sempre tenere a mente questa perla di saggezza popolare quando si parla di princìpi. Specialmente di princìpi costituzionali.

La vicenda dell’Ilva è emblematica al riguardo. Provo a riassumerla, al fine di spiegare perché il decreto-legge adottato dal Governo per consentire la riapertura dello stabilimento della società pugliese costituisce un precedente molto pericoloso.

Partiamo dai fatti.

A fine giugno di quest’anno la Procura della Repubblica di Taranto chiede al Gip l’applicazione di misure cautelari personali nei confronti dei dirigenti della società Ilva S.p.A., per diverse ipotesi di reato, e di misure reali per aree, impianti e materiali del relativo stabilimento siderurgico. Accogliendo la richiesta, il Gip emette un’ordinanza applicativa della misura degli arresti domiciliari e un provvedimento di sequestro preventivo. Misure sulle quali viene chiesto il riesame al Tribunale di Taranto.

I ricorsi sono accolti parzialmente; rimangono fermi la maggior parte delle misure cautelari personali e il provvedimento di sequestro dello stabilimento.

I danni derivanti dalla chiusura dell’Ilva, si dice, sarebbero micidiali per la produzione e per l’occupazione regionali e nazionali. Così il Governo interviene con un decreto-legge (il n. 207/2012), che si presenta subito come una legge-provvedimento, un atto avente forza di legge che non contiene norme generali e astratte, ma prescrizioni particolari e concrete. Gli enunciati in esso contenuti “parlano” in generale a categorie astratte di destinatari, ma in realtà si rivolgono all’azienda siderurgica pugliese. E ai suoi giudici.

Cosa dicono?

In sostanza, consentono la prosecuzione dell’attività produttiva, per un periodo di tempo determinato (non superiore a 36 mesi), a tutti gli stabilimenti di interesse strategico nazionale, quando presso di essi siano occupati un numero di lavoratori subordinati, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni, non inferiore a duecento da almeno un anno (esattamente come l’Ilva), e sempre che vi sia “un’assoluta necessità di salvaguardia dell’occupazione e della produzione”. In questi casi il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare può autorizzare tale prosecuzione in sede di riesame dell’autorizzazione integrata ambientale.

Il decreto prevede, inoltre, che la suddetta disciplina si applichi anche quando (come nel caso dell’Ilva) l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa titolare dello stabilimento. In questi casi, i provvedimenti di sequestro “non impediscono, nel corso del periodo di tempo indicato nell’autorizzazione, l’esercizio dell’attività d’impresa”.

Si riconosce all’impianto siderurgico dell’Ilva la condizione di “stabilimento di interesse strategico nazionale” e si dispone che, dalla data di entrata in vigore del decreto, la società sia (re)immessa nel possesso dei beni dell’impresa e che sia in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dall’autorizzazione integrata ambientale, alla prosecuzione dell’attività produttiva nello stabilimento ed alla conseguente commercializzazione dei prodotti per un periodo di 36 mesi.

All’indomani dell’entrata in vigore del decreto sono stati avanzati dubbi sulla sua costituzionalità.

Si è discussa, innanzitutto, la ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore tra i principi costituzionali in gioco: la tutela della salute e la protezione dell’ambiente, da un lato, e le esigenze di salvaguardia dell’occupazione e della produzione, dall’altro.

Il bilanciamento è la logica dei princìpi costituzionali. In ogni scelta legislativa c’è sempre un bilanciamento che, nel singolo caso, può sacrificare maggiormente l’uno o l’altro principio (così, ad esempio, l’iniziativa economica privata o il diritto al lavoro, la libertà di religione o la tutela della salute, il diritto al lavoro o la salvaguardia dell’ambiente ecc.).

La Corte costituzionale può essere chiamata, nelle forme previste, a pronunciarsi sull’eventuale irrazionalità, arbitrarietà e irragionevolezza delle soluzioni adottate dal legislatore. Essa non può entrare nel merito politico delle stesse, ma deve verificare, ove richiesto, che le scelte legislative non risultino assurde, incoerenti, sproporzionate o palesemente inadeguate rispetto ai fini che si vogliono raggiungere.

Tale controllo è giustificato dall’articolo 3 della Costituzione, che, nel prevedere il principio di eguaglianza, pone, innanzitutto, un criterio logico-giuridico in base al quale a situazioni uguali devono corrispondere trattamenti uguali e a situazioni diverse trattamenti adeguatamente diversificati.

Non è sufficiente però che una legge abbia un contenuto particolare e concreto perché la si possa qualificare, per ciò solo, come irragionevole, arbitraria, irrazionale e, dunque, illegittima.

A volte la legge deve necessariamente avere il contenuto di un provvedimento, se vuole rimuovere ostacoli di carattere economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese: si pensi soltanto a quanto prevede l’articolo 43 della Costituzione, a norma del quale la legge, “a fini di utilità generale”, può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

Ci sono dunque leggi-provvedimento previste dalla stessa Costituzione.

D’altro canto, quando un atto legislativo ha un contenuto particolare e concreto è più probabile che esso introduca discriminazioni non giustificate e, pertanto, illegittime; la Corte costituzionale ha quindi più volte affermato che tali leggi, per il fatto di essere altamente “sospette”, devono essere comunque sottoposte ad uno “stretto scrutinio di costituzionalità” sotto forma di controllo di non arbitrarietà e di non irragionevolezza delle norme in esse contenute.

Il bilanciamento tra salute, ambiente, occupazione e produzione operato dal legislatore nel decreto Ilva non sembra palesemente irragionevole. Quel che però non va è che tale provvedimento interviene pesantemente in un procedimento giudiziario in corso, rimuovendo gli effetti di un provvedimento di sequestro preventivo.

Tali previsioni paiono violare tutta una serie di principi costituzionali riguardanti le prerogative della magistratura, il “giusto processo” e la separazione dei poteri.

Così, tra gli altri, sembrerebbe intaccato l’art. 102 della Costituzione, che attribuisce ai magistrati ordinari la funzione giurisdizionale, mentre il decreto Ilva, revocando di fatto un provvedimento cautelare, si sostituirebbe agli organi giudiziari competenti. E possono intendersi eluse le garanzie del “giusto processo” previste dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. E, in definitiva, il principio di divisione dei poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario).

In breve, il drammatico quesito che il decreto-legge n. 207/2012 sembra porre è il seguente: è sostenibile per l’ordinamento, in nome di pur fondamentali esigenze di salvaguardia dell’occupazione e della produzione, il sacrificio di così tanti princìpi cardine dell’organizzazione statale? Davvero non esistevano soluzioni tecniche alternative e meno dirompenti per la legalità costituzionale?

La valutazione del contesto ha certamente un peso nella considerazione dell’ammissibilità costituzionale di un bilanciamento tra princìpi: le drammatiche conseguenze che la chiusura dello stabilimento dell’Ilva avrebbe sulla produzione e sull’occupazione non possono essere trascurate. Ma nella dimensione dello Stato costituzionale il contesto non è tutto. E, soprattutto, il fine non può giustificare ogni possibile mezzo.

Ogni scopo che abbia un collegamento con un principio riconosciuto nella Carta repubblicana è, di per sé, nobile. Assolutizzarlo significa però porsi al di fuori della cornice costituzionale, creare precedenti pericolosissimi, che chiunque potrebbe utilizzare in futuro.

E così, di buona intenzione in buona intenzione, gli strappi alla legalità costituzionale stanno proseguendo.

Successivamente all’entrata in vigore del decreto, il competente Gip di Taranto ha ritenuto che il provvedimento del Governo non avesse efficacia retroattiva e, quindi, ha rigettato l’istanza del presidente dell’Ilva in cui si chiedeva il dissequestro dei prodotti finiti e semilavorati, realizzati nel periodo successivo al sequestro degli impianti dell’area a caldo.

In risposta, il gruppo Riva, proprietario dell’Ilva, ha minacciato “drammatiche conseguenze per i livelli occupazionali”, e precisamente la perdita di altri 1.400 posti di lavoro.

A fronte di tale scenario – è notizia delle ultime ore –, il Ministro dell’Ambiente ha comunicato che il Governo sta presentando un emendamento alla legge di conversione del decreto Ilva, che chiarisca, con un intervento di interpretazione autentica, che la facoltà di commercializzazione dei manufatti da parte dell’Ilva riguarda anche quelli prodotti prima dell’entrata in vigore del decreto e attualmente sotto sequestro.

È proprio vero: meglio diffidare delle vie lastricate di buone intenzioni…

Foto | Wikipedia.org

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