CAMBIARE L’ITALIA, RIFORMARE L’EUROPA
UN’AGENDA PER UN IMPEGNO COMUNE
PRIMO CONTRIBUTO AD UNA RIFLESSIONE APERTA
di Mario Monti
1. ITALIA, EUROPA
Costruire un’Europa più integrata e solidale, contro ogni populismo
La crisi ha impresso al processo di integrazione europea una accelerazione che sarebbe stato difficile immaginare solo pochi anni fa. Nei prossimi anni saranno scritte pagine decisive per il futuro dell’Europa e per il destino degli Stati che ne fanno parte. La scelta a favore o contro l’Europa e su quale Europa diventerà una linea di frattura fondamentale tra gli Stati e le forze politiche. L’Italia, Paese fondatore, deve essere protagonista attivo e autorevole di questa fase di ri-fondazione dell’Europa. Deve svolgere un ruolo trainante per promuovere nuovi assetti che rendano l’Unione Europea capace di perseguire in modo efficace, e secondo linee democraticamente decise e controllate, la crescita economica e lo sviluppo sociale del connente secondo il modello dell’economia sociale di mercato.
L’Italia deve battersi per un’Europa più comunitaria e meno intergovernava, più unita e non a più velocità, più democratica e meno distante dai cittadini. Le conclusioni del Consiglio europeo del 13-14 dicembre 2012 segnano l’avvio di un cammino per la costruzione di un’autentica Unione economica e monetaria basata su una più intensa integrazione fiscale, bancaria, economica e politico istituzionale. Le elezioni europee del giugno 2014 dovranno costituire il momento per un confronto trasparente e democratico tra le forze politiche europee sul futuro della costruzione comunitaria. Il prossimo Parlamento europeo dovrà avere un mandato costituzionale. Il rifiuto del populismo e dell’intolleranza, il superamento dei pregiudizi nazionalisti, la lotta contro la xenofobia, l’antisemitismo e le discriminazioni sono il denominatore comune delle forze europeiste.
Quello che l’Italia deve chiedere all’Europa.
L’Europa da sola non è la ricetta che risolve i problemi dell’Italia. L’Unione europea non è qualcosa al di sopra o al di fuori dei suoi Stati membri. Le sue politiche sono il risultato di un mix di interessi generali e interessi particolari dei vari Stati. Per questo trarre pienamente vantaggio dalla partecipazione all’Unione richiede una presenza costante e vigile per far valere il proprio punto di vista quando si definiscono le politiche, che poi fissano la cornice per le azioni a livello nazionale. Per contare nell’Unione europea non serve battere i pugni sul tavolo. Se non si convincono gli altri Stati delle proprie ragioni, si resta con un pugno di mosche in mano. Né serve fare i soci poco esigenti al tavolo del negoziato e magari provare ad allentare gli obblighi successivamente quando devono essere attuati. L’influenza sulle decisioni comuni nasce dalla credibilità, dal saper far valere peso economico e politico, dal lanciare idee su cui creare alleanze. Per questo l’Italia, paese contributore netto al bilancio europeo e che sostiene finanziariamente lo sforzo di salvataggio dei Paesi sottoposti a programma del Fondo Europeo Salva-Stati, deve chiedere all’Europa politiche orientate nel senso di una maggiore attenzione alla crescita basata su finanze pubbliche sane, un mercato interno più integrato e dinamico, una maggiore solidarietà finanziaria attraverso forme di condivisione del rischio, una maggiore attenzione alla inclusione sociale e alla sostenibilità ambientale. Politiche che ne riflettono i suoi interessi e i suoi valori.
Quello che l’Europa chiede all’Italia
Far parte di una comunità politica ed economica sempre più integrata comporta vantaggi ma anche responsabilità. Dobbiamo sempre più abituarci al fatto che le nostre scelte di politica economica siano guardate e valutate con attenzione dagli altri Stati dell’Unione, perché le politiche fatte insieme producono risultati migliori e perché le cattive politiche fatte a livello nazionale possono produrre danni che si riflettono negli altri Paesi con cui siamo strettamente integrati. Le forze politiche devono fare proprio il principio secondo cui le politiche economiche (in particolare le misure volte alla crescita e quelle di politica finanziaria) di ciascuno Stato Membro dell’Unione sono una questione di interesse comune dell’Unione europea e come tali sono soggette a coordinamento, orientamento e monitoraggio da parte della stessa. In questo quadro l’Italia deve confermare il proprio impegno al rispetto delle regole di disciplina delle finanze pubbliche e ad assumere le priorità strategiche definite in sede europea e le raccomandazioni specifiche che l’Unione europea rivolge ogni anno all’Italia, come a tutti gli altri Stati Membri, come parametri di riferimento per la formulazione della sua politica economica.
L’Italia a testa alta nel mondo
Una parte rilevante dell’azione del governo è stata dedicata all’azione sul fronte internazionale. Questa scelta corrisponde alla convinzione che il destino di ogni Paese non si decide più nei suoi confini ma è strettamente intrecciato a quello del sistema di relazioni globali in cui è inserito. E che la quotazione dell’aggettivo “italiano” nel mondo è altrettanto importante dello spread per la crescita e lo sviluppo del nostro Paese. Per questo è stata data priorità a rafforzare la posizione dell’Italia dentro l’Unione europea e a rinsaldare i legami con gli Stati Uniti promuovendo un più forte legame transatlantico. Allo stesso tempo l’Italia ha rafforzato il suo posizionamento in tutti i quadranti fondamentali dello scacchiere globale, dal Medio oriente all’Asia. La collocazione geografica dell’Italia al centro del Mediterraneo impone di guardare con più coraggio e con una visione strategica ai grandi cambiamenti politici, economici e civili suscitati dalla primavera araba e di sostenere percorsi di vera democratizzazione. L’Italia ha confermato la sua vocazione a sostenere il multilateralismo, nelle Nazioni Unite e nei fori informali come il G8 e il G20. Un’azione che poggia su uno strumento diplomatico di eccellenza, sulla presenza delle forze armate italiane nelle operazioni di pace nel mondo, nel contrasto al terrorismo internazionale e nella lotta alla pirateria, sulla diffusione della cultura italiana nel mondo. Su questo sentiero, l’Italia deve valorizzare la rete di italiani nel mondo, un network con potenziale inestimabile. Occorre maggiore attenzione alle relazioni con i Paesi in via di sviluppo improntandole alla difesa della pace e alla solidarietà, allo sradicamento della povertà e della insicurezza alimentare. Per ovviare a risorse forzatamente limitate, va rafforzato il coordinamento delle poliche di cooperazione, meendo a coerenza l’intero sistema di cooperazione italiano (pubblico, priva, territori e società civile).
2. LA STRADA PER LA CRESCITA
La crescita non nasce dal debito pubblico. Finanze pubbliche sane, a tutti i livelli.
Con un debito pubblico che supera il 120% del PIL non si può seriamente pensare che la crescita si faccia creando altri debiti. Non è una questione di cieco rispetto di vincoli europei o sottomissione ai mercati. E’ la realtà, scomoda, dei numeri. Lo spread conta per le imprese e i lavoratori, perché finanziare il debito pubblico costa agli italiani €75 miliardi in interesse annuali, ovvero circa il 5% del PIL. Ridurre di 100 punti base il tasso di interesse che paghiamo sul debito, vale 20 miliardi di euro a regime. E da novembre 2011 il tasso di interesse è calato di oltre 250 punti. Si possono anche criticare obblighi europei, ed anche il governo le ha criticate, per certi aspetti ma bisogna ricordare che esse sono oggi il test della credibilità della politica fiscale seguita dagli Stati che devono rientrare da un debito eccessivo. Bisogna rovesciare la prospettiva e prendere il quadro europeo come lo stimolo a cercare la crescita dove essa è veramente, nelle innovazioni, nella maggiore produttività, nella eliminazione di sprechi. La crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane.
Per questo il Paese dovrà continuare l’impegno per il risanamento dei con pubblici in coerenza con gli obblighi europei in materia di disciplina delle finanze pubbliche, ed in particolare:
a. attuare in modo rigoroso a partire dal 2013 il principio (di cui al nuovo articolo 81 della nostra Costituzione) del pareggio di bilancio strutturale , cioè al netto degli effetti del ciclo economico sul bilancio stesso;
b. ridurre lo stock del debito pubblico a un ritmo sostenuto e sufficiente in relazione agli obiettivi concordati (tenuto conto del fatto che, realizzato il pareggio di bilancio e in presenza di un tasso anche modesto di crescita, l’obiettivo di riduzione dello stock del debito sarebbe già automaticamente rispettato);
c. ridurre a partire dal 2015, lo stock del debito pubblico in misura pari a un ventesimo ogni anno, fino al raggiungimento dell’obiettivo del 60% del prodotto interno lordo;
d. proseguire le operazioni di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico, in funzione della riduzione dello stock del debito pubblico (ogni provento deve essere integralmente destinato a questo scopo).
Riduzione e riequilibrio dei carichi fiscali
L’aggiustamento fiscale compiuto quest’anno a prezzo di tanti sacrifici degli italiani ha impresso una svolta. Con l’avanzo primario raggiunto, il debito è posto su un sentiero di riduzione costante a parre dal prossimo anno. Per questo, se si tiene la rotta, ridurre le tasse diventa possibile.
Per la prossima legislatura occorre un impegno, non appena le condizioni generali lo consentiranno, a ridurre il prelievo fiscale complessivo, dando la precedenza alla riduzione del carico fiscale gravante su lavoro e impresa. Questa va comunque perseguita anche trasferendo il carico corrispondente su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio. Servono meccanismi di misurazione della ricchezza oggettivi e tali da non causare fughe di capitali . In questo modo il fisco diventa strumento per perseguire anche obiettivi di maggiore equità nella distribuzione del peso dell’aggiustamento.
Bisogna inoltre realizzare un nuovo Patto tra fisco e contribuente per un fisco più semplice, più equo e più orientato alla crescita. Seguendo l’impostazione tracciata dalla legge delega in materia fiscale, il cui esame non è stato completato dal Parlamento, occorre riformare il sistema tributario.
Eliminare gli sprechi, valorizzare gli investimenti produttivi.
Se la corsa della spesa pubblica non viene fermata e la dinamica del debito non è invertita, il Paese non può ripartire. Ma i tagli devono avvenire in modo intelligente e selettivo. Spending review non vuol dire solo “meno spesa”, ma “migliore spesa”.
Vuol dire eliminare ciò che non è efficace o non ha ragioni di essere mantenuto e creare spazi per la spesa che produce crescita. E’ necessario creare gli spazi per aumentare gli investimenti pubblici per la crescita e l’occupazione, invertendo il trend discendente di questi ultimi anni.
La spending review lanciata quest’anno ha permesso risparmiare 12 miliardi e ulteriori risparmi saranno conseguiti nel 2013, quando le misure entreranno pienamente a regime. Sono state ridotte le retribuzioni dei manager pubblici e benefit costosi, come le auto blu. L’azione di riduzione dei costi è però solo all’inizio. Cambiamenti strutturali nella spesa, come la riduzione e il taglio di enti e organismi pubblici, richiedono tempo e un approccio sistemattco e continuativo. Deve proseguire l’azione di riduzione e riqualificazione della spesa corrente, salvaguardando tuttavia la spesa per investimenti produttivi per le infrastrutture, la ricerca e l’istruzione, motori della crescita. Riqualificare la spesa pubblica significa domandarsi sistematicamente se le voci di bilancio, indipendentemente dalla loro anzianità di iscrizione nei bilanci, hanno ancora senso e sono congrue ai risultati da raggiungere, valutando la loro efficienza ed efficacia. La spending review deve diventare un metodo ordinario per la gestione corretta ed efficente delle amministrazioni pubbliche, prima fra tue quella statale.
Una pubblica amministrazione più agile, più efficiente, più trasparente. Usare meglio i fondi strutturali europei
Un’amministrazione pubblica più moderna e più agile è la chiave per migliorare la vita dei cittadini e la competività del Paese. La semplificazione del rapporto tra la pubblica amministrazione e i cittadini e le imprese è stata al centro dell’azione di questi mesi: via adempimenti inutili per infrastrutture ed edilizia, migliorata la legge fallimentare, piena digitalizzazione della pubblica amministrazione, per fare qualche esempio. Cambiare il volto dell’amministrazione pubblica è uno sforza di lunga lena. Le riforme amministrative avviate nei mesi scorsi devono continuare così da allineare ai migliori standard europei i livelli di efficienza delle amministrazioni di ciascun settore e ridurre il carico burocratico gravante sulle imprese e i cittadini, anche nel pagamento dei tributi.
Entro i primi 100 giorni di attività del nuovo governo dovrà essere lanciata una consultazione per identificare le 100 procedure da eliminare o ridurre con priorità assoluta. L’altra priorità è accrescere, mediante le necessarie misure organizzative e gestionali, l’efficienza delle pubbliche amministrazioni, in particolare dell’amministrazione giudiziaria, elemento chiave per la competività delle imprese. Le misure prese quest’anno e le esperienze pilota nei tribunali dimostrano che si può ottenere una giustizia più efficiente e più celere per i cittadini e le imprese. Deve essere introdotto un principio generale di trasparenza assoluta della pubblica amministrazione, secondo il modello del Freedom of Information Act degli Stati Uniti e del Regno Unito.
Lo spreco dei fondi strutturali dell’Unione europea , un’occasione unica di investimento per la crescita nelle regioni del nostro Mezzogiorno, è uno scandalo che il nostro Paese non può più permettersi. Non si possono chiedere risorse allo Stato, e quindi ai contribuenti, mentre si lasciano svanire risorse europee, che sono peraltro anch’esse finanziate dal contribuente italiano. Sulla scorta dell’esperienza maturata con il successo del Piano di azione coesione e della riprogrammazione dei fondi strutturali, occorre mettere in campo tutti gli sforzi possibili per incrementare la capacità delle amministrazioni di promuovere progetti finanziabili da parte dei Fondi strutturali dell’UE, con un obiettivo preciso: l’utilizzazione totale dei contributi disponibili.
Continuare la stagione delle liberalizzazioni
L’anno passato ha segnato un salto di qualità negli interventi per l’apertura dei mercati e la rimozione delle barriere alla concorrenza. Le liberalizzazioni non sono state provvedimenti isolati ma parte integrante di una politica economica che ha messo al centro l’interesse dei cittadini-consumatori piuttosto che quello delle singole categorie economiche o dei produttori. Ed è stata un contributo ad accrescere l’equità, favorendo gli outsiders e i nuovi ingressi nel mercato. Sono stati interessati gli ordini professionali, banche ed assicurazioni, i mercati del gas e dei carburanti, i trasporti, le farmacie, i servizi pubblici locali, per citare solo alcuni settori. Secondo l’OCSE questi interventi hanno allentato rigidità radicate e potranno portare fino allo 0,4% di crescita incrementale all’anno per i prossimi dieci anni.
Restano tuttavia ostacoli alla concreta attuazione delle liberalizzazioni, perché molte norme generali hanno bisogno di attuazione a livello regionale e locale. Restano ancora restrizioni in vari settori. Resta la tentazione ricorrente di reintrodurre tutele e protezioni, come si è visto con la riforma della professione forense.
E’ necessario impegnarsi a proseguire e intensificare la politica di apertura dei mercati dei beni e dei servizi , sulla base di un adeguato processo di consultazione pubblica, nelle industrie a rete, nei servizi pubblici locali, rispettando i paletti posti dalla sentenza della Corte costuzionale, e nei servizi resi da lavoratori autonomi e liberi professionisti, nonché di rimozione dei vincoli che limitano in essi la concorrenza, sulla linea delle indicazioni della Commissione europea e dell’Autorità Antitrust nazionale. Bisogna fare della Legge Annuale sulla Concorrenza lo strumento regolare di una periodica azione di rimozione di vincoli e blocchi che ingessano l’economia e di maggior tutela dei consumatori. Mettere al centro della politica economica la concorrenza significa lavorare per un’economia più efficiente e innovativa, migliorando la qualità di vita e le possibilità di scelta dei cittadini-consumatori.
Rivitalizzare la vocazione industriale dell’Italia
ILVA, IRISBUS, ALCOA sono solo alcuni dei nomi delle oltre trecento vertenze che in questi mesi hanno segnato la cronaca delle crisi industriali. Con la crisi il contributo dell’industria manifatturiera all’economia italiana si è ridotto significativamente, in termini di valore aggiunto e di occupazione. E la crisi continua a colpire. Siamo ancora ben lontano dai livelli di attività industriale precedenti al 2008. La crisi industriale e occupazionale è il prodotto di dinamiche globali ma anche di scelte sbagliate nei decenni passati e di riforme a lungo rimandate. Ma dobbiamo avere fiducia nella forza dell’Italia come luogo competitivo di produzione industriale.
Nei mesi scorsi migliorare il contesto competitivo per le imprese è stato un filo rosso dell’azione del governo. Riduzione degli oneri burocratici, tribunali per le imprese, promozione di fonti di finanziamento alternative, come la possibilità di avere obbligazioni societarie o l’agevolazione fiscale per i project bonds, la defiscalizzazione per le imprese che investono (ACE), la riduzione dei ritardi di pagamento dell’amministrazione alle imprese, revisione degli incentivi alle imprese, riduzione dei costi di approvvigionamento energetico sono stati alcuni dei fronti di azione. Bisogna andare avanti. Occorre aumentare gli investimenti in ricerca e innovazione, attraverso il credito strutturale di imposta. Bisogna facilitare l’introduzione di nuove forme di finanziamento per migliorare l’accesso al credito e promuovere misure che facilitino la crescita dimensionale delle nostre imprese.
Per gestire le ristrutturazioni industriali si può immaginare uno strumento nuovo, un
Fondo per le ristrutturazioni industriali , che faccia da catalizzatore per la partecipazione di capitali privati. Occorre continuare a lavorare per la riduzione del costo dell’energia. Occorre completare la riforma della giustizia civile. Serve infine lavorare sulla produttività totale dei fattori e sul costo del lavoro per diminuire quel divario con gli altri Paesi europei che crea uno squilibrio di competitività. Bisogna quindi continuare sulla strada del decentramento della contrattazione salariale lungo il solco dell’accordo tra le parti sociali dell’ottobre scorso.
Tutto questo serve ad aiutare la transizione dei settori tradizionali. Allo stesso tempo dobbiamo favorire la nascita di nuove imprese nei settori che sono portatori di crescita. Il governo ha per la prima volta introdotto un regime per le start up. Sulla base di un attento monitoraggio dei risultati, si potrà pensare a sostenere ulteriormente le piccole imprese innovative, anche aiutando l’emergere di un vero mercato dei capitali di rischio, in particolare seed capital, che aiuti i giovani nella primissima fase di avvio della loro impresa.
Aperti ma non disarmati sui mercati globali. Proiettare le imprese italiane sui mercato internazionali, riaprire il Paese agli investimenti esteri.
La crisi ha accelerato la corsa delle economie emergenti, dove maggiore è l’espansione della domanda e si accumulano nuovi capitali. Nella zona euro, le economie che hanno attraversato meglio la crisi sono quelle che hanno saputo cogliere le opportunità poste dalla crescita dei mercati extraeuropei. Tra le imprese italiane, quelle più grandi, più produttive e più innovative hanno saputo difendere e aumentare le loro quote di export, mentre soffrono le piccole e medie imprese, che fanno più fatica ad uscire dal mercato domestico. Nel complesso, negli ultimi dieci anni l’Italia ha perso quasi il 30% della sua quota nel commercio mondali dei beni. Adesso si è iniziato a invertire la rotta.
La credibilità dell’Italia nel mondo aiuta le imprese ad aprirsi nuove porte. Ma per sostenere la competitività c’è anche bisogno di ridurre i costi del credito per l’export, di rendere più agili ed efficienti le strutture di promozione del commercio estero rafforzando il lavoro della nuova ICE, di migliorare la logistica e di eliminare oneri amministravi e adempimenti farraginosi. Occorre una attenzione particolare per la proiezione internazionale delle imprese medio-piccole, che hanno bisogno di consulenza giuridico-economica adeguata e di informazioni sui nuovi mercati di sbocco. Bisogna infine sostenere gli interessi legittimi delle imprese e dei lavoratori italiani nella definizione degli accordi commerciali che l’Unione europea stringe con i Paesi terzi, promuovendo un migliore e più equo accesso ai mercati internazionali, secondo la logica di un approccio aperto ma non disarmato.
Allo stesso tempo, l’Italia è un paese dove mancano capitali per investimenti e crescita. Eppure è il fanalino di coda nella classifica degli investimenti diretti esteri. Negli ultimi mesi abbiamo assisto ad un inizio di ritorno degli investimenti esteri in Italia. Bisogna puntare a raggiungere un livello di investimenti diretti esteri vicino alla media europea, che potrebbe portare fino a circa 50 miliardi di euro in più di investimenti l’anno. Per far questo bisogna guardare con occhi più aperti agli investimenti diretti esteri, quando sono basa su piani industriali seri e hanno prospettive di valorizzazione industriale e occupazionale. E’ il contrario della svendita, è un’opportunità per entrambi, investitori e territori beneficiari.
Bisogna prendere sul serio l’istruzione, la formazione professionale e la ricerca.
La scuola e l’università sono le chiavi per far ripartire il Paese e renderlo più capace di affrontare le sfide globali. A livello collettivo, investire in capitale umano è la strada per sfuggire alla morsa della competizione di Paesi con costi di manodopera più bassi. A livello individuale, avere un grado di istruzione adeguato e competenze appropriate è una carta fondamentale per trovare lavoro, realizzare le proprie aspirazioni. Eppure l’Italia ha un elevato tasso di abbandono scolastico precoce, un livello di performance scolastica più basso rispetto alla media dei Paesi OCSE e un numero di laureati lontano dagli obiettivi fissati dall’Unione europea.
C’è bisogno di invertire la rotta. Per questo bisogna prendere l’istruzione sul serio. Serve rompere uno schema culturale per cui il valore dello studio e della ricerca e il significato della professione di insegnante sono stati mortificati. Gli insegnanti devono essere rimotivati e il loro contributo riconosciuto, investendo sulla qualità. Il modello organizzativo deve cambiare puntando su autonomia e responsabilità come principi fondanti. Da subito occorre completare e rafforzare il nuovo sistema di valutazione centrato su INVALSI e INDIRE, basato su indici di performance oggettivi e calibrati sulle caratteristiche del bacino di utenza e dei livelli di entrata degli studenti.
Occorre inserire con gradualità meccanismi di incentivazione dei dirigenti scolastici basati sulla valutazione del rendimento della struttura ad essi assegnata, e degli insegnanti , ad esempio attraverso un premio economico annuale agli insegnanti che hanno raggiunto i migliori risultati.
Bisogna ridurre il tasso troppo alto (18%) di abbandono scolastico precoce con misure mirate e nuovi investimenti nelle strutture scolastiche. Occorre assicurare a ogni adolescente che esce da un ciclo scolastico un servizio efficiente di orientamento scolastico e professionale.
Man mano che si riduce il costo del debito pubblico e si eliminano spese inutili, possiamo creare nuovi spazi per investimenti nell’istruzione. La priorità dei prossimi cinque anni è fare un piano di investimenti in capitale umano . In materia di ricerca, occorre proseguire e affinare il progetto avviato dall’ANVUR per il censimento e la valutazione sistematica dei prodotti di ricerca. Bisogna inoltre rilevare per ogni facoltà in modo sistematico la coerenza degli esiti occupazionali a sei mesi e tre anni dal conseguimento della laurea, rendendo pubblici i risultati.
E’ prioritario accrescere gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione, incentivando in particolare gli investimenti nel settore privato anche mediante agevolazioni fiscali e rafforzando il dialogo tra imprese e università. Bisogna rendere le università e i centri di ricerca italiani più capaci di competere con successo per i fondi di ricerca europei, sulla scorta del lavoro avviato nei mesi passati.
Italia 2.0: l’Agenda digitale
Nel corso dell’ultimo anno sono state messe in campo varie misure per colmare il ritardo accumulato dall’Italia nello sfruttare le opportunità offerte dalle tecnologie ICT. Sono state introdotte misure per favorire la più rapida digitalizzazione della pubblica amministrazione, in modo da ampliare il numero di cittadini che interagiscono con gli uffici pubblici attraverso internet, ad esempio per ottenere fatturazioni, certificati o procedure anagrafiche o per pagare servizi come i ticket sanitari. Sotto la guida della Cabina di regia istituita dal Governo si sono fatti progressi nell’attuazione dell’Agenda digitale italiana, che fissa una serie di obiettivi e di azioni da attuare entro il 2020. Occorre continuare il lavoro avviato e rafforzarlo lungo i quattro assi delle connessioni infrastrutturali a banda larga e ultra larga, delle smart communies/smart cities , della introduzione dell’approccio “open data” rendendo tutti i dati della pubblica amministrazione accessibili e scambiabili on line, la diffusione del “cloud computing”, la nuvola dei dati, per unire e condividere dati provenienti da più istituzioni e dell’e-government, rafforzando gli incentivi per l’utilizzo di tecnologie digitali nei processi amministrativi per fornire servizi ai cittadini .
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