Domenica scorsa il Giappone è andato alle urne. Seggi aperti dalle 7 del mattino alle 8 di sera. Alla fine hanno votato il 59,32 per cento degli aventi diritto, il minimo storico dal dopoguerra.
L’efficienza giapponese è emersa subito alla fine delle operazioni di voto. Volontari maratoneti hanno portato le cassette con le schede elettorali verso le sedi dello spoglio in tutte le piccole e grandi città dell’arcipelago.
Quattro ore dopo la chiusura dei seggi i risultati, in realtà ampiamente anticipati dagli exit poll pubblicati da tutti i media nazionale nel corso dell’election day. Maggioranza schiacciante per il partito conservatore, il Partito liberal-democratico di Shinzo Abe (325 su 480 seggi). Un partito che è stato padrone del Giappone per 54 anni fino al 2009. Lo stesso Abe è già stato primo ministro nel 2006.
Le elezioni giapponesi hanno poi determinato l’affermazione della destra più nazionalista: quella del l’ex governatore di Tokyo Shintaro Ishihara e del suo giovane numero due, l’attuale sindaco di Osaka Toru Hashimoto. Da partito messo su in pochi mesi in maniera affrettata e, forse, approssimativa a terza forza politica nazionale.
Il Partito della Restaurazione (un nome che riporta alle origini del Giappone contemporaneo, quello della Restaurazione imperiale del 1868) è il vero trionfatore di queste elezioni: ha fatto incetta di voti giocando sulla popolarità a livello locale dei due leader e ha ottenuto 54 seggi, appena quattro in meno della maggioranza uscente del Partito democratico.
Una ricetta di successo dunque, in un Paese dove è soprattutto il voto della capitale e della seconda megalopoli del Paese (Osaka, appunto) a determinare i destini dei soggetti politici in corsa.
L‘esperimento democratico, c’è da scommetterci, finirà presto nel dimenticatoio. Il primo ministro uscente Noda, domenica, ancora prima della pubblicazione dei risultati ufficiali, aveva ammesso le proprie responsabilità.
“Politica è responsabilità dei risultati. Il responsabile di questa dura sconfitta sono io,” ha concluso Noda, dando le dimissioni da leader del partito. In Giappone, sconfitta – peraltro pesante – significa presa di coscienza e dimissioni.
Anche la macchina organizzativa giapponese ha avuto le sue pecche. Non tutto, infatti, ha funzionato come si deve. Ad Akita, poco a nord di Tokyo, uno scrutatore si è presentato in ritardo.
“Sono dispiaciuto, mi sono svegliato tardi,” si è scusato l’impiegato quarantenne, che si è guadagnato la rabbia dei trenta elettori che aspettavano l’apertura del seggio e un servizio al telegiornale nazionale.
Poi, l’alta percentuale di astensione. I numeri sono preoccupanti. In particolare, i giovani non sono stati coinvolti a sufficienza. Intervistati dalla Nhk, alcuni hanno risposto: “Vorrei votare, ma non ho tempo.” Oppure: “Non so come e nemmeno dove si fa.”
Un panorama deprimente che nemmeno il gruppo tutto al femminile Akb48, popolarissimo tra i giovani, è riuscito a smuovere attraverso la candidatura di sue componenti a seggi in Camera bassa e proprie “elezioni” interne.
Il voto di domenica è stata l’espressione di una piccola parte dei giapponesi. Gli altri, dalla politica, delusi erano e delusi, probabilmente, rimarranno. Il cambiamento che doveva esserci nel 2009 con i democratici al potere non c’è stato, e ancora una volta non ci sarà.
La verità è che il Giappone con Abe ha votato il passato.