La curva che vedete qui sopra fa riferimento a quello che, nella letteratura economica, è noto come paradosso di Easterlin. Richard Easterlin è un economista americano che, nel 1973, pubblicò su una rivista tra le più importanti di economia, l’American Economic Review, un articolo molto interessante. In esso, utilizzando dati relativi a un campione rappresentativo di cittadini americani, mostrava appunto una relazione non particolarmente intuitiva.
Rapportando la felicità al reddito, il ricercatore individuava, infatti, una strana dinamica: al crescere del reddito, come è lecito aspettarsi, la felicità delle persone inizialmente cresce. Passata, però, una certa soglia (un valore critico), la felicità delle persone comincia a ridursi.
Quali le possibili spiegazioni di questo grafico che sembra uno smile triste?
C’è chi, all’interno del filone dell’economia sperimentale, sottolinea come la felicità sia uno stato edonico che le persone sentono in relazione a un punto di riferimento, e non rispetto a un valore assoluto. Se una persona vince al superenalotto, per capirci, sicuramente sarà molto felice nei giorni immediatamente successivi alla vincita. È tuttavia probabile che, nel corso del tempo, quella stessa persona tenderà ad adattarsi alla nuova condizione, e a valutare la propria felicità in relazione al nuovo reference point.
Un’altra spiegazione, invece, è quella che tiene conto dell’importanza delle dinamiche relazionali-ambientali nella vita di una persona. È possibile, cioè, che per guadagnare più soldi una persona lavori più ore. Arriva, tuttavia, un limite, oltrepassato il quale un’ora di straordinario finisce col togliere tempo da dedicare alla qualità della vita, che si tratti di relazioni amicali, sentimentali o delle ore da passare con i propri figli in un ambiente sano.
A quel punto, è possibile che una persona diventi infelice.
Facciamo ancora una volta un esempio: immaginate una città sulla costa salentina. Per comodità, facciamo pure finta che sia Taranto. Oltre ad avere un centro storico meraviglioso, c’è la spiaggia libera e le persone vivono prevalentemente di pesca, agricoltura e piccolo artigianato. Un giorno, in città arriva una grossa industria, che per comodità potrebbe essere l’Ilva: essa, sicuramente, ha dei benefici effetti, poiché offre lavoro e, di conseguenza, soldi agli abitanti, che iniziano una vita da operai.
Siamo nel tratto crescente della curva individuata da Easterlin.
Col passare del tempo, si manifestano tuttavia vari effetti indesiderati: l’industria scarica in mare e nell’aria sostanze inquinanti, che rendono la spiaggia non balneabile e determinano un aumento del tasso di tumori in tutta l’area. Gli operai, inoltre, hanno meno tempo libero di prima e, con gli straordinari, possono guadagnare i soldi necessari o ad acquistare l’auto (con cui recarsi nel primo paesino con spiaggia libera disponibile) o a pagare la piscina privata costruita da un imprenditore locale (il mercato, infatti, tende sempre a sostituire un bene, come la spiaggia libera, con un suo surrogato vendibile attraverso un prezzo). I soldi spesi per le cure mediche, tra gli altri effetti, vanno comunque ad aumentare il PIL, che al suo interno include le spese in medicinali e servizi medici. Le auto intasano la statale litoranea, le spiagge libere tendono a congestionarsi e quelle private sono sempre più care ed esclusive. La salute della popolazione è irrimediabilmente compromessa.
È possibile che la felicità delle persone, a Taranto, si riduca sempre di più. Fino al momento in cui il nodo e, ahinoi, la dicotomia tra lavoro e ambiente emerge con tutta la sua virulenza, scatenando un conflitto istituzionale tra magistratura e governo.
Siccome il lupo perde il PIL ma non il vizio, infatti, il decreto Monti sembra tanto un ammissione di irreversibilità e impotenza. Le istanze dei lavoratori, quelle della tutela della salute e dell’ambiente da un lato. E gli interessi industriali di un gruppo che, forse, per troppo tempo ha avuto carta bianca nel pianificare un futuro a breve scadenza, dall’altro.
Un famoso brano di Luigi Einaudi suona quasi come un monito profetico:
“E’ ragionevole che ogni famiglia, anche modesta, aspiri al possesso della radio, che la tiene in contatto con il mondo, che consente audizioni musicali elevatrici, con minimo costo e senza danno per l’adempimento dei doveri familiari. Ma la radio fu altresì il frutto della rabbia sentita del demonio che è in noi contro lo spirito di critica il quale conduce gli uomini a ribellarsi contro la ripetizione, contro l’ordinario, contro ciò che tutti dicono e pensano; e in quel giorno l’uomo-demonio inventò questo che può diventare strumento perfettissimo di imbecillimento dell’umanità quando cada in mano a chi se ne serva a scopo di propaganda. Propaganda orale e vocale, insinuante, quotidiana, mille volte più efficace della propaganda scritta e stampata… Il passaggio dalla radio che allieta ed istruisce e fa dimenticare i dolori, alla radio che è causa di imbecillimento dell’umanità è graduale. Chi sa premunirsi dall’andare oltre il punto critico nell’uso della radio?”
Si parlava, ai tempi, dell’uso propagandistico di un mezzo di comunicazione, ma il ragionamento è altrettanto valido se applicato alla politica industriale.
La domanda è: riconoscendo la priorità sempre più evidente della questione ambientale e della salute delle persone, quando la politica saprà farsi carico della necessità di ripensare radicalmente l’idea di sviluppo?