Django « regala momenti di grande cinema », come si usa dire, perchè fa leva sul già visto, su quei sentimenti già provati che riescono a smuovere qualcosa dentro soprattutto a chi di film di quel tipo ne conosce. Ma non si tratta di citazionismo fine a se stesso, tutt’altro. In primo luogo, Tarantino usa il western per parlare del lato più oscuro della creazione della nazione americana, lo schiavismo. I neri, dimenticati da quasi tutti i film western, diventano allora protagonisti e il film si fa seria critica dell’oblio in cui il mito americano (cioè il mito e l’immaginario creati e celebrati dal cinema western) ha relegato la questione razziale.
In secondo luogo, costruisce una sorta di melodramma passionale basato su amore e vendetta. Il tutto condito da un’atmosfera che calibra le grandi passioni con violenza e comicità (come i membri del ku klux klan che si lamentano di non vederci un tubo con quei cappucci in testa). Insomma come un vero spaghetti western ma in meglio.
La colonna sonora dell’originale di Sergio Corbucci
Ne è un esempio il modo in cui Tarantino riesce a dare senso agli sguardi degli schiavi, che vedendo Django ribellarsi e scappare a cavallo per riprendere la sua Hindi, si riempiono di ammirazione e orgoglio. Per creare una tensione simile attorno a quegli sguardi, non bastano una musica ben scelta e degli effetti di montaggio. L’intero film è là per dare intensità a quell’immagine. Niente di banale, al contrario. Proprio la sua apparente semplicità ne rivela la grandiosità. « Who is that nigger ? » si chiedono gli schiavi. Checché ne dica Spike Lee, Tarantino puo’ permettersi di usare quella parola quante volte vuole.