In a sentimental moodFabrizio De Andrè 18-02-1940 / 11-01-1999

All'inizio fu una copia masterizzata di Storia di un impiegato, quel concept-album rinnegato dallo stesso Fabrizio De Andrè perchè troppo schierato (''Quando è uscito Storia di un impiegato avrei ...

All’inizio fu una copia masterizzata di Storia di un impiegato, quel concept-album rinnegato dallo stesso Fabrizio De Andrè perchè troppo schierato (”Quando è uscito Storia di un impiegato avrei voluto bruciarlo (..) ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi”). Eppure quel disco trasuda una poesia magnetica, e narra la storia disperata di un innamorato della vita che s’arma di bombe contro il Potere e poi resta solo per scontare i suoi anni in prigione: è la storia del singolo uomo in lotta, come quasi tutte le piccole storie di De Andrè, dell’intima sfida e appello per cambiare le cose che non vanno nel mondo. Forse per una volta però Faber ha parlato di bombe piuttosto che di idee e parole, tuttavia è implicito il richiamo al potere rivoluzionario delle parole, un potere che è stato anche di Gesù Cristo, figura che torna nel vero disco sessantottino del cantautore genovese, La Buona Novella. I due pezzi conclusivi di Storia di un impiegato, Verranno a chiederti del nostro amore e Nella mia ora di libertà, raccontano tutta la lacerazione interiore del bombarolo sconfitto dall’arrogante potere, persino la donna amata lo abbandona alla sua lotta, vinta ”dagli occhi per loro”, un loro sempre presente e inevitabile; eppure – nonostante l’ammissione della sconfitta – il contestatore continua disordinatamente la sua protesta persino tra le mura del carcere rifiutando di prender parte all’ora di libertà concessa dai carcerieri. C’è un’edicola davanti al Parlamento di Roma che è la viva testimonianza del tradimento di quella lei stordita dagli occhi degli altri al bombarolo. Questa è la poesia dell’anima che riesce a preservarsi dall’orrore, come quella del blasfemo (personaggio immaginario tratto da Spoon River ne Non al denaro, non all’amore nè al cielo) che grida ”mi cercarono l’anima a forza di botte”, perchè a che serve pestare il corpo quando è dentro che si anima il dissenso?

Questo aspetto della parola di Fabrizio mi ha sempre emozionato, e continua a farlo, perchè la poesia non è solo il regno dell’immediatamente letto, ma anche quello in cui si coglie continuamente l’inaspettato e il nuovo nel riletto. ”I poeti, che strane creature”, come Brecht, Elliot, Majakovskij, Garcia Lorca: nella continua furia delle parole ci sono sempre cose che ci erano sfuggite; come Bob Dylan, Leonard Cohen, e gli chansonniers.

Forse la differenza vera tra De Andrè e gli altri cantautori italiani è nel raccontare l’universale e contemporaneamente renderlo particolare coi dettagli: non troverete canzoni d’amore struggenti nel suo repertorio, ma gli spunti su quella cosa che è l’amore sono ovunque, dal capolavoro Amore che vai, amore che vieni [ero alla fermata di una metro di Berlino a far risuonare nell’aria questo pezzo, e quando una ragazza tedesca mi chiese di chi si fosse quella meraviglia sentii per la prima volta qualcosa come l’orgoglio nazionale] o La ballata dell’amor perduto ci ricordano la caducità del tempo, ma c’è amore persino dentro il Terzo Intermezzo e ne Il suonatore Jones. E poi i rari casi in cui Fabrizio ha parlato di se stesso dentro i pezzi, come Giugno ’73, l’amante lasciato stavolta per una diversità delle anime, oppure Hotel Supramonte, che è anche un lamento per il padre nel testimoniare il rapimento di Faber e Dori Ghezzi. E ancora Valzer per un amore, con quel retrogusto di attesa e rifiuto, tratto da un sonetto di Pierre de Ronsard. E c’è amore anche in Sally, amore per la conoscenza che porta ovunque, perchè questa è la bellezza delle anime libere, che un giorno vanno a giocare con gli zingari nel bosco e l’altro montano un pesciolino d’oro sfidando l’ignoto e il pericolo [”Quando ero piccolo mi innamoravo di tutto”]. Perciò, se vedi qualcuno che gioca con gli zingari per curiosità lasciagli libertà. Persino il drogato di De Andrè è libero, per quanto solo ne Il cantico dei drogati dove s’appella alla madre ma non sa come dirle che ha paura. Non stupisce che la televisione non volesse avere niente a che fare con un cantautore così. E’ un mondo aperto di testimonianze, di piccole storie, è una scoperta della natura umana, debolezze e paura ma anche forze e ispirazioni. ”Via del campo, c’è una puttana”; ”a un dio fatti-il-culo non credere mai”. Per esempio, Amico Fragile è altrettanto forte e rabbiosa (punk!) quanto un’ammissione di fragilità: è tutto detto nel verso ”ero molto più ubriaco di voi”.

In una delle rare interviste rilasciate in vita De Andrè disse che preferiva leggere piuttosto che guardare, perchè con la lettura si può immaginare, cosa che necessariamente non è possibile quando hai a che fare con fotografia o cinema: forse è interessante notare che nelle canzoni di De Andrè c’è una forte libertà della nostra immaginazione. Farò un esempio mainstream perchè mi farebbe piacere se mi capissero anche i meno avezzi a Faber, e cioè La canzone di Marinella. E’ un pezzo chiaramente ricco di riferimenti e descrizioni, tuttavia siamo liberi di far fluttuare la nostra personale idea di cos’è questa canzone, dare un volto a Marinella, sovrapporre la nostra storia, nell’incredibile gioco dei detti e non dett, dei sottintesi, il principe busserà in eterno alla porta di Marinella perchè ”non la volle creder morta”: il principe è ognugno di noi nel quotidiano rapporto con l’impossibile.

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