“Se lo ascoltaste (il mare), vi racconterebbe la storia di una ragazza prigioniera di una strana organizzazione. Un giorno le cose si sono messe male per lei. Arrestata per l’ennesima volta, le hanno iniettato delle droghe che alterano il sistema nervoso, provocandole crisi violentissime, annebbiandole la vista, causandole insopportabili dolori alla testa e alla schiena. E’ riuscita a lasciare l’organizzazione di cui faceva parte, si è rifatta una vita nell’anonimato e conserva la speranza di neutralizzare gli effetti dei veleni che la consumano. Ci crede, come un tempo credeva nel suo “mestiere”. E se la fede spostasse davvero le montagne?”
“Ho dovuto uccidere” è il racconto autobiografico di un intrepido 007 del Mossad israeliano. Per la prima volta un’agente del Mossad, una donna, rivela cosa significa essere una spia infiltrata nelle file nemiche, gli Hezbollah libanesi. Ebrea di nazionalità francese, la giovane Nima Zamar (ingegnere informatico), questo il nome in codice, decide a 22 anni, dopo la morte della madre, accompagnata dalla necessità di ritrovare se stessa, di fare l’ “aliyah”, la salita, ossia l’immigrazione verso Israele, la sua “vera terra”.
La completa integrazione nel paese comprende l’inevitabile servizio militare. Nima è poco incline al rispetto della disciplina e per una serie di circostanze viola il sistema informatico centrale dell’esercito. Per rimediare a questo grave atto, Tshalal, l’esercito israeliano propone come compensazione l’appartenenza al Mossad per evitarle anni di carcere. Un reclutamento “subdolo”, un addestramento fisico e mentale, aspro e insensibile, e una formazione (momento di deformazione e desensibilizzazione) volta a renderla un soldato cinico e spietato. Inizia la vita della spia.
E così si assiste, pagina dopo pagina, al progressivo annullamento della personalità di Nima. La sua coscienza si sgretola finché lei non impara a diventare un esecutore. In grado di uccidere a sangue freddo. Bisogna abbandonare il proprio corpo per essere in grado di non sentire il dolore e per saper fare il male agli altri. Le parole, i giorni, gli anni, gli avvenimenti fedelmente registrati scorrono veloci. Al contrario dei dieci anni che l’autrice passa nei Paesi “caldi” del Medio Oriente, tra Libano, Siria e Israele. Quelli più duri, quelli di cui ancora porta i segni. Che l’hanno vista convivere gomito a gomito con i suoi nemici. Addestrata a resistere e combattere, viene più volte arrestata, pestata, torturata, perennemente braccata. E, infiltrata tra le più diverse formazioni terroristiche arabe di cui lei deve capire in anticipo le mosse, impara a guardare con diffidenza quei nemici che spesso sono ragazzi come lei, anche più giovani, senza futuro e pronti a tutto per dei principi e dei valori che lei è stata istruita e condizionata ad odiare senza riflettere.
Dieci anni di una prova continua in cui man mano la donna, “l’umano” lascia il posto a un automa in grado di far fronte, senza tradirsi, a qualsiasi difficoltà, trasformandosi in una sorta di robot programmato per uccidere, insensibile al dolore, alla paura, alla pietà e al rimorso. Ma, con il passare degli anni, qualcosa le si spezza dentro, spingendola a ribellarsi a una logica assurda e senza speranza, e a gridare al mondo la sua verità. La sua coscienza emergerà di nuovo e sarà proprio questa a salvarla. Il riscatto? La recuperata capacità critica, l’autonomia di pensiero. Solo così la giovane potrà riscattarsi dalla pericolosa riduzione a robot, tutto cervello e senza cuore, cui è stata ridotta. Insomma la vera speranza di Nima è la sua decisa ribellione al condizionamento psicologico che l’ha resa una macchina per uccidere. Il suo riscatto e la sua vera liberazione sono appunto le parole che “corrono” nel libro “Ho dovuto uccidere” in cui la verità viene delineata e “urlata” senza veli e ipocrisie.
Le pagine che ci lascia Nima Zamar sono sfaccettature di un’unica realtà. Sono il dovere e il bisogno di raccontare. Sono un diario, una confessione, una cronaca. Sono storia universale e sentimento individuale, un percorso e una meta raggiunta. Sono l’incomprensibile, l’assurdo, il grottesco di una logica sfrenata e criminale ma anche una spiegazione semplice. E ancora, rivelazione, segreto, espiazione. La voglia di raccontare, ma non senza difficoltà. Perché al suo gesto sono seguite le censure, le opposizioni. Di Nima Zamar non si conosce il vero nome. La sua drammatica esperienza le ha lasciato profonde cicatrici nel corpo e nell’anima e tutt’ora, rea di aver “tradito” i suoi compagni e abbandonato i servizi segreti, è in costante pericolo di vita.
Oggi Nima ha trentacinque anni, vive nell’anonimato, gira solo a viso coperto perché, con il suo ritorno alla vita, ha tradito i suoi compagni. Ha voluto scrivere alla memoria dei suoi “colleghi”, come lei prigionieri di un terribile ingranaggio, uomini che hanno dato tutto, compresa la vita. E anche per una bambina, “una bambina dai grande occhi verdi come il mare in tempesta (…) perché sappia, quando diventerà grande, nel caso io non dovessi più esserci. Perché non commetta l’errore che ho commesso io, quella sera d’estate in cui ho accettato di aiutare un ufficiale a ritrovare un file “perduto” sul suo computer”. Ci sono “mille ragioni per pubblicare questo libro. Ragioni di sicurezza per gli uomini infiltrati, di efficacia per i programmi ancora in corso, di umanità per i nostri intermediari.(…)”.
Nima vuole correre questi rischi. “Perché se non lo faccio io, chi lo farà?”