Il suo punto di forza, l’arma segreta di cui, solo, potesse disporre, consisteva nella diversità. In un distacco, una distanza, professionale e comportamentale, che lo rendeva agli occhi di tutti l’unico uomo su cui poter fare affidamento, colui che ci avrebbe condotti con paternale esperienza e rassicurazione laggiù, oltre il guado melmoso di una voragine implacabile. Un’algidità professorale, frammista a un certo piglio a accademico e un po’ saccente, tipico di chi per anni ha sempre sentito preposta la propria qualifica al nome, cui col tempo ci siamo abituati. Una sobrietà e freddezza che hanno reso più sopportabile, proprio perché non addolcita dall’ipocrisia abituale, una medicina molto amara.
Abbiamo deglutito stentorei e impassibili, nell’illusione, quasi nella fede incrollabile, che la preparazione tecnica di un esecutivo straordinario avrebbe superato l’ostacolo più grande: far ripartire un paese ormai seppellito da macerie. Macerie, ovunque.
La sua forza risiedeva tutta lì: nella percezione e nella reputazione di professionalità di tecnico, di salvator mundi, non ancora corrotto né mescolato all’incapacità, grigia e diffusa, della classe politica attuale. Dalla quale, sebbene in modo non pienamente democratico, per poco, solo per poco, siamo stati felici di liberarci finalmente.
Ora che la metamorfosi è compiuta e che l’ambizione politica ed il fascino distruttivo del ruolo eroico di salvatore hanno prevalso sulla mitezza di un carattere freddo, sembra che qualcosa si sia incrinato. Sembra irriconoscibile.
E che abbia preso, nell’agone politico, le vesti di uno dei tanti: prestati, magari per un po’, al bellissimo e lurido gioco della politica, ma che di quelli, che per professione la fanno, hanno bisogno.
Forse, proprio qui, è caduto nell’errore più grande. Affidarsi a vecchi professionisti del consenso, a trite modalità di coagulare e organizzare la volontà collettiva, che finiranno per smorzare l’intensità del messaggio e delle idee che vorrebbe veicolare.
E’ caduto, affascinato, nella suadente trappola delle lusinghe, nell’indefessa adulazione di chi lo ha celebrato senza esitazione. Senza critica, ovvero senza capacità di discernimento, di giudizio. Finendo così per far perdere al suo progetto tutta la carica innovativa di cui aveva bisogno.
Affidarsi ad epigoni logori e logorati di una politica che fu, eterni secondi rosi dalle ambizioni leaderistiche, è stata un’altra mossa fallace. Mescolando, e quasi confondendo, il suo nome, aspettative e reputazione dietro partiti senza traccia, che si stanno aggrappando a lui per non scomparire.
Una politica diversa, concentrata ed identificata da contenuti e idee, come la voleva intendere, avrebbe fatto a meno del nome in un simbolo. Avrebbe fatto ruotare la proposta intorno al contenuto programmatico, invece di dar vita al solito schemino di coalizione. Alla quale, solo una certa “società civile”, cooptata ed elitaria, parteciperà.
Avrebbe magari parlato di più, senza distogliere l’interesse dalle ricette economiche e di bilancio, di stato sociale, di perequazione sostanziale tra cittadini, di servizi. Di valori, anche morali. Avrebbe chiarito la prospettiva etica e sociale che ha in mente per il Paese. Anche per colmare il gap che lo separa dalla conoscenza reale dei problemi quotidiani degli italiani.
A dire il vero un programma ce l’ha: chiaro ed ambizioso. Eppure come non storcere il naso al pensiero di chi dovrebbe supportarlo e sostenerlo nella sua attuazione, senza se e senza ma.
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