Manierista, privo di pathos, eccessivamente raffinato, troppo colto. I critici, spesso italiani, l’hanno già definito in tutti questi modi, il nuovo film di Giuseppe Tornatore, regista che si ripresenta agli spettatori con una storia che, bisogna dirlo a onor del vero, tutto è tranne che semplice.
Tuttavia, sembra giusto staccarsi dal solito coro della critica italica che marchia i film prima ancora di averli visti: questo è intellettuale, questo è debole, quest’altro è manierista, aggettivi che troppo spesso vengono elargiti in base alle affiliazioni politiche piuttosto che al reale valore della pellicola.
La Migliore Offerta, un film italiano e cosmopolita al medesimo tempo (davvero un unicum nel panorama di provincialismo intellettuale nostrano) è un lungometraggio di rara raffinatezza stilistica e, al contrario di quanto sin’ora detto, di accorato sentimento accompagnato da una sicura e sottile comprensione dell’animo umano.
Virgil Oldman (Geoffrey Rush) è un metodico battitore d’asta, un priseur che possiede una sua casa d’aste con un giro di clienti internazionale, dal Museo dell’Ermitage al Vaticano. E’ un vecchio (lo dice il cognome stesso) sia anagraficamente che esteticamente: in effetti, ricorda il Phileas Fogg di David Niven ne Il giro del mondo in 80 giorni, un signore puntualissimo e solo che nell’ordine della sua vita trova il perché filosofico del Mondo. Non per caso, la scena in cui Mr Oldman sceglie il paio di guanti quotidiano ricorda da vicino quella in cui Phileas Fogg mostra ad un esterrefatto Cantinflas/Passepartout il suo guardaroba perfettamente etichettato ed inventariato.
Un giorno, la routine di Mr Oldman viene sconvolta da un’offerta, la prima di una serie di “offerte reciproche” che si susseguono per tutta la durata del film. Miss Claire Ibbetson (Sylvia Hoeks), un’inglese che vive in un’imprecisata capitale della vecchia Mitteleuropa, richiede i servigi di Mr Oldman per valutare e quindi mettere all’incanto i beni ereditati dai suoi genitori morti di recente: una villa e tutto il suo arredo.
Alle iniziali resistenze di Oldman, spazientito dai modi evasivi della giovane che non si fa mai trovare o vedere, si aggiunge il mistero di una ragazza che da anni vive segregata nella sua villa a causa di una severa forma di agorafobia.
Mr Oldman, un uomo che ha un paio di guanti per “toccare” ogni situazione senza mai restare toccato, non può che cedere al sentimento che via via lo avvicina ad una ragazza che sembra condividere la sua incapacità di confrontarsi col mondo o, meglio, la sua incapacità a costruire dei rapporti umani, specie con le donne. Virgil ha, a casa sua, un’intera stanza segreta – vero antro delle meraviglie da Mille e una notte – in cui conserva una strabiliante collezione di ritratti di donne: Bronzino, Modigliani, Gainsborough. Il suo modo di amarle è ammirarle ma guai a parlare con un esemplare in carne ed ossa.
Piano piano, ad ogni sua visita alla villa, Oldman recupera – quasi venissero lasciati lì a posta – degli ingranaggi al primo momento incomprensibili ma che poi si scoprono essere i meccanismi di un rarissimo pezzo di antiquariato: un automa umano del celebre inventore settecentesco Jaques de Vaucanson.
Ogni pezzo porta con sé un progresso nella costruzione del marchingegno, opera in cui Oldman viene aiutato dal giovane Robert (Jim Sturgess), un aggiustatutto furbetto che non la racconta giusta sin dal primo fotogramma. Più l’automa si accresce e più l’amore tra la giovane e bella Claire e l’anziano Mr Oldman si avvia al lieto fine sino a che, quando ormai siamo placidamente accomodati nelle nostre poltrone in sala, non ci rendiamo conto che il completamento dell’automa coinciderà con il compimento della frode.
In un film in cui tutto è vero ed al medesimo tempo simulato, Tornatore inserisce dei camei che svelano la sua grande cultura cinematografica (e non solo). La nana che recita numeri all’apparenza casuali, nel bar di fronte alla villa, e che sale e scende le scale di casa su un marchingegno avveniristico è puro Fellini.
Ma c’è anche di più. Ci sono richiami letterari nascosti e poco visibili epperò potentissimi. La nana è Rigoletto, è Hop Frog, è in sostanza un doppio di Virgil Oldman, un doppio che è sotto i nostri occhi sin dall’inizio del film ma che solo alla fine riusciamo ad identificare come tale. Non solo lei è l’unica – come il buffone di tante tragedie shakespeariane – ad avere la visuale più veritiera della realtà, ma è accomunata a Mr Oldman dal suo destino di diversa.
Già, perché Virgil è un uomo di successo, è ricco, è influente (al suo Club gli servono addirittura la cena su piatti con il suo monogramma) ma nella buona sostanza è e rimarrà – la fine della storia sta a dimostrarlo, – un diverso, un outcast, una facile preda di quegli uguali omologati che sentendosi maggioranza sono perfettamente legittimati a fare scempio persino dei suoi sentimenti più intimi e sinceri.
La maestria cinematografica di Tornatore non si discute, basterebbe l’esempio della scena in cui Oldman aspetta, imperterrito, di fronte alla torta di compleanno che la direzione del suo Club gli offre a sorpresa: una serie in crescendo di primissimi piani e sfocature tra il volto di Virgil e la candelina sulla torta che, con misurata lentezza, si spegne per consunzione.
La vera bellezza del film, però, sta nella sua capacità di coniugare suspence a cultura, in un continuo rimando letterario che non si fa mai pedante perché mira ad essere invisibile: non si tratta di un film, come molte produzioni italiane recenti sin troppo finanziate, che cerca di “urlare cultura” ad ogni fotogramma. Al contrario, è fruibile con altrettanto piacere sia dal dotto intenditore che dallo spettatore meno accorto.
In poche parole, non possiamo se non essere contenti nel constatare che, malgrado gli sforzi di tanti sedicenti intellettuali, il cinema italiano, quello vero, non è ancora morto.