Laura Pemberton era incinta del suo secondo figlio e voleva partorirlo “naturalmente”, senza cesareo. Il primo figlio lo aveva avuto con un taglio cesareo, ma questa volta era convinta fosse preferibile dare alla luce vaginalmente, come suggerito da una larga parte della comunità medica. Accompagnata da un’ostetrica, Laura aveva iniziato le doglie, quando la polizia arrivò a casa sua e la costrinse con la forza a recarsi all’ospedale, dove, contro la sua volontà, le fu fatto un taglio cesareo.
A chiamare la polizia e ottenere il mandato di cattura erano stati i dottori dell’ospedale, dove lei era in cura. I giudici giustificarono la misura adducendo che “il diritto del feto prevale sul diritto della madre di decidere sulla propria cura medica” e che “il diritto dello stato di preservare la vita del feto prevale sul diritto all’integrità fisica della madre”.
Da quanto descritto da uno studio pubblicato di recente dalla Fordham University, quello di Laura non è che uno dei 413 casi di donne criminalizzate per le loro scelte in gravidanza negli Stati Uniti. Alcune di queste donne sono state arrestate per aver saltato le visite prenatali, altre per avere assunto sostanze considerate non sicure in gravidanza e varie per essersi opposte al taglio cesareo. In molti di questi casi, come in quello di Laura, i tribunali hanno assunto il ruolo di difensori del feto, la cui personalità giuridica e i cui diritti sono stati giudicati superiori a quelli della madre.
Questo nonostante l’aborto, negli Stati Uniti, sia legale. Cose di questo tipo, d’altronde, potrebbero succedere presto anche in Italia. Nel 2009, una sentenza della Corte di Cassazione ha definito il nascituro un “soggetto giuridico a tutti gli effetti”, il cui interesse può essere in conflitto con quello della madre o dei genitori.
Non bisogna essere giuristi per capire le possibili conseguenze, molto preoccupanti, di un’interpretazione legale di questo tipo, che definisce il feto come persona, con diritti non solo concorrenti ma spesso superiori a quelli della madre, vista, in quest’ottica, come semplici incubatrici. Seguendo questa logica, le donne in gravidanza diventerebbero penalmente responsabili per qualsiasi comportamento possibilmente lesivo del benessere del feto. Per capirci, una donna potrebbe essere denunciata se è sovrappeso, oltre i 35 anni o affetta da malattie genetiche, perché tali condizioni possono influire negativamente sullo sviluppo e la salute del feto. Stiamo entrando, cioè, in un territorio legale complicato e molto pericoloso, in diretta contrapposizione con il diritto, oramai dato per scontato nel nostro e in molti altri paesi sviluppati, a terminare una gravidanza non desiderata.
Il dibattito sul diritto del feto e il diritto delle donne a decidere del proprio corpo (apparato riproduttivo incluso) lo conosco fin troppo bene. Ho lavorato con organizzazioni di donne in El Salvador, Nicaragua e Peru, dove le gravidanze non possono essere interrotte neanche quando mettono a repentaglio la vita delle gestanti. Conosco le storie di decine di donne in questi paesi finite in prigione per aver tentato di abortire, o peggio, morte cercando di interrompere gravidanze non desiderate in modo clandestino e insicuro. Ho conosciuto una madre disperata perché non aveva i soldi per comprare sul mercato nero la RU486 per la figlia, rimasta incinta dopo uno stupro. Credetemi, queste non sono situazioni in cui nessuna donna si dovrebbe trovare, neanche con la mente, neanche per un minuto.
Eppure migliaia o più probabilmente milioni di donne in tutto il mondo si trovano in queste situazioni ogni giorno. La differenza tra un paese come l’Italia, dove la morte per aborto è quasi nulla, e uno come El Salvador, dove migliaia di donne si tolgono la vita o muoiono ogni anno a causa di aborti clandestini, la fanno le leggi e le interpretazioni legali dei tribunali, cui dobbiamo prestare attenzione come non mai. Perché in molti paesi, come in Italia, la battaglia sulla legalità dell’aborto e sul diritto di una donna a decidere del proprio corpo, oggi, si combatte non solo nelle piazze, ma, più spesso, nei tribunali.
Sempre e comunque, però, in Italia come negli Stati Uniti e nel Salvador, è sulla nostra pelle che si combatte questa battaglia.