Questa mattina, dalle colonne della corazzata Repubblica, è partita la cannonata di Eugenio Scalfari contro Mario Monti. In effetti, su alcuni temi l’analisi è precisa e coglie il punto. Ma, su altri lascia aperte molte domande. Vediamo.
Dice Scalfari di Monti: “Mi ha deluso e mi preoccupa molto perché la sua azione avrà come risultato inevitabile quella di rendere ingovernabile il nuovo Parlamento gettando il Paese (e l’Europa) nel caos”. I motivi? Tramite la legge elettorale basterà poco al Senato per far saltare la più che probabile vittoria del centrosinistra. In più, con l’assurda pretesa di avere la premiership per sé (come minaccia anche Casini). Questo argomento è corretto e condivisibile. Perché fa sua l’idea, ci pare, che nel bipolarismo abborracciato di questi anni, almeno una conquista si salvava: la democrazia dell’alternanza, quella che – tranne alcuni importanti episodi, peraltro assai diversi tra loro: Dini, D’Alema, Monti – ha permesso un sano avvicendamento tra le forze politiche al governo e ha – quasi – consegnato all’oblio la stagione della democrazia consociativa della Prima Repubblica. Un governo Bersani-Monti (o, addirittura, Monti-Bersani) farebbe ritornare l’Italia verso quella Prima Repubblica (lo ha fatto notare, di recente, Luca Ricolfi). E questo non ci piace. Così come non piace lo stile del premier attualmente in carica, troppo aggressivo rispetto all’immagine di serietà e compostezza che lo aveva fatto apprezzare in tutta Europa. Su questo Scalfari ha ragione.
Ma Scalfari dice anche un’altra cosa molto ‘pesante’: “I due programmi, il suo (di Monti, ndr) e quello di Bersani, nelle parti principali coincidono”. E addirittura: “Esaminati questi due programmi si direbbe trattarsi del medesimo documento nelle sue linee fondamentali, tanto che dal canto mio scrissi che essi ben potevano esser chiamati ‘agenda Italia’ per l’attuazione della quale un’alleanza pre o post elettorale tra il centro e il centrosinistra risultava opportuna data l’importanza ed anche la difficoltà di realizzare le finalità condivise”. E qui il discorso si complica e suscita non poche domande.
La prima: la grande coalizione va bene si o no? Perché se va bene, va bene sempre, anche se il pallino passa nelle mani dell’avversario…
La seconda: quali programmi ha confrontato Scalfari? Quello di Bersani coincide con la Carta d’Intenti del centrosinistra, quindi definisce un perimetro di valori, ma non contiene ancora numeri né proposte precise e nemmeno obiettivi misurabili. Evidentemente, questa mancanza di chiarezza del programma del centrosinistra – e le contraddizioni interne su punti fondamentali ed ‘europei’ come la conciliazione tra riduzione del debito pubblico e politiche di crescita e sviluppo – suscita molte diffidenze rispetto alla capacità di assumere responsabilità di governo e di prendere delle decisioni coerenti. Ovviamente, si spera davvero che Bersani, dopo i nomi della società civile, tiri fuori dal cilindro un programma valutabile in tempo per le elezioni e che questo programma vada davvero nella direzione auspicata da Scalfari.
La terza domanda è la più insolente: ma se è vero che i programmi – diciamo, meglio, le intenzioni – sono uguali, perché alcuni hanno sentito il bisogno di creare un partito nuovo, con l’idea di puntare al 15-20 per cento? Non bastava il Partito democratico? Perché dei soggetti che ‘normalmente’ collocheremmo nel centrosinistra – penso a un sindacato come la Cisl, a una associazione di lavoratori tradizionalmente di sinistra come le Acli, a un movimento ecclesiale come la Comunità di Sant’Egidio da sempre in prima linea nella difesa dei poveri e degli esclusi, a intellettuali che provengono dalla storia della sinistra italiana come Romano, Rossi e Ichino – sentono il bisogno di promuovere un impegno nuovo, ma fabbricando una macchina nuova?
Chissà se Scalfari si è fatto queste domande. E chissà se gli italiani hanno già pronte le risposte…
@vittorioferla