Le immagini scorrono mute e sbiadite dal tempo sullo sfondo graffiato delle vecchie pellicole. In mezzo a una cornice di montagne c’è una ragazza con un impermeabile chiaro un fazzoletto in testa. Si sbraccia, indica qualcosa, sorride e pronuncia parole che si perdono nell’aria. Poi l’inquadratura malferma si stringe sul volto e sugli occhi. C’è qualcosa di triste in quegli occhi che mi sembra raccontare il dolore degli anni che passano.Posso rivedere la sequenza quante volte voglio, ma quella ragazza non c’è più. Nel 1947 aveva venticinque anni e ora le sue ceneri stanno sotto una pietra con l’iscrizione dorata...Il filmino prosegue: vedo mamma e zio Sandro vestiti uguali come due damerini, vedo mio fratello cicciotto con la sua scodella di capelli, poi i cugini biondi, infine vedo me stesso sotto la barba nera di mio padre. E il giorno in cui è arrivato a casa il cane: forse il momento più ingenuamente felice della mia vita. Ci avevano organizzato una sorpresa, il papà era tornato prima dal lavoro, mentre la mamma di nascosto era andata a prendere il cucciolo e poi aveva suonato il campanello, io sono andato ad aprire e l’ho trovato lì che scodinzolava, fatico quasi a evocare la gioia senza se e senza ma di quell’attimo.Fermo la proiezione e rimango con lo sguardo perso nel televisore spento. Ci vuole un bel coraggio, mi dico, per ricordare le cose che muoiono, invecchiano, si corrompono, ci vogliono dei bei muscoli e una bella creativa incoscienza per dare un senso a questa vita disordinata e incoerente come il risucchio di un’onda quando ti ci trovi in mezzo e annaspi, bevi, ti graffi le gambe sui sassolini e non sai più dove ti trovi.Il pianto di Emma interrompe i miei pensieri. La prendo in braccio e la cullo finché lei non decide di sorridere (una cosa disarmante e indescrivibile: non c’è niente al mondo come il sorriso di un bambino). La stringo e per un istante non mi fa più paura l’idea che un giorno sarò solo una vecchia pellicola sgualcita, e che anche la mia bambina soffrirà, vivrà e sfiorirà e poi con ogni probabilità svanirà.
L’esercizio della genitorialità non è una pratica che si acquisisce sui manuali e non si struttura solo sulla base di nozioni e tecniche. E’ una pratica, un’arte antica appresa nella famiglia d’origine e nelle vicende transgenerazionali che ci hanno preceduto, influenzata dai contesti cultuali e sociali contemporanei e dalle nuove forme che la famiglia può assumere nel tempo, reinventata quotidianamente nella relazione con i propri figli, dotati di una loro specifica individualità. Questo intreccio di fattori rende la funzione genitoriale particolarmente complessa e mutevole, mai riconducile a schemi fissi. Per questo è difficile insegnare a essere “buoni genitori”.
Alcuni ingredienti per vivere in modo soddisfacente il proprio essere genitori ci sembrano però necessari. Si tratta, per prima cosa, di un buon livello di consapevolezza che ci aiuti a vivere nel presente prestando attenzione ai nostri pensieri e sentimenti, per diventare capaci di comportamenti meditati non automatici e impulsivi, arricchendoci di risposte sempre più flessibili. E’ importante poi coltivare una disponibilità ad apprendere, la propensione a crescere in tutte le età della vita. I figli offrono l’opportunità di riattraversare questioni sospese della propria infanzia o adolescenza. Anche la pazienza di attendere senza pretendere risultati, e quindi di differire le gratificazioni è importante, così come la capacità di percepire le emozioni degli altri, di stabilire interazioni basate su empatia, comprensione emotiva, curiosità e ascolto. Infine è fondamentale coltivare la gioia di vivere, alimentando il piacere di stare insieme. Per quanto non si sottolinei molto spesso, per essere genitori bisognerebbe sapersi misurare, con la felicità oltre che con la fatica, l’ansia e il dolore. Una felicità che non deriva dall’aumentare la quantità di beni posseduti da ciascuno ma dall’intensità delle relazioni, vale a dire dalla condivisione di un bene collettivo, poiché è impossibile essere felici da soli.