“Limonov” è un “romanzo” di Emmanuel Carrère (Adelphi 2012) che pone al centro della narrazione una persona viva e vegeta assurta nel cielo narrativo come personaggio d’eccezione. Si tratta di Eduard Limonov al secolo Eduard Veniaminovich Savenko, ucraino nato in una cittadina russa del Volga che anche nella vita vera ha scelto, come fanno molti artisti, tale nom de plume. Limonov è uno scrittore in proprio, autore di libri che attingono ça va sans dire alla sua biografia, miniera da cui trae materiale anche Carrère perquesta narrazione. Limonov è tuttora leader di un partito Nazionalbolscevico (sì, proprio così) che su posizioni di apologia nostalgica della vecchia Unione Sovietica, unitamente ai gruppi politici del celebre scacchista Garri Kasparov e dell’ex primo ministro di Putin Michail Kas’janov, ha dato vita alla formazione politica Drugaja Rossija (L’altra Russia) che si oppone all’autocrate Putin, despota orientale per cui stravede buona parte della popolazione russa ma anche il nostro Berlusconi, il quale vede comunisti dappertutto tranne che nella loro tana.
I Nazibol di Limonov sono dei giovani che forse in Italia militerebbero in Forza Nuova ma in Russia, dove tutto è più confuso e miscelato almeno dai tempi di Bakunin, Herzen, Černyševskij , costituiscono a detta della martire Anna Politikovskaja , che li difendeva a spada tratta, giovani coraggiosi, puliti, gli unici o quasi che permettevano di guardare con fiducia all’avvenire morale del paese.
Carrère insegue il suo personaggio letterario – un po’ come Dumas faceva con il nostro Garibaldi – dagli esordi nella cittadina sperduta nel Volga, seguendo fedelmente le reali tappe terrene dell‘ Eroe del nostro tempo Limonov da Char’kov seconda città ucraina, a Mosca, a New York, a Parigi, ancora a Mosca, a Vukovar e Sarajevo (a fianco del criminale Karadžić e della “Tigre” Arkan ) e infine nella Mosca dell’altro ieri (2009) in nove capitoli preceduti da un prologo e un epilogo come si conviene alle autentiche epopee.
Eroe o canaglia, patriota o terrorista, uomo d’elezione o cialtrone internazionale, non mette conto riferire la battaglia che si è aperta, anche a beneficio dell’aura che circola intorno a questo romanzo, sull’uomo eletto da Carrère a eroe letterario. Posso solo dire qual è l’angolo visuale attraverso il quale è visto l’ingombrante personaggio. Angolo che è esplicitato in esordio del romanzo, allorché Carrère candidamente confessa che mentre la sua vita di borghese colto parigino non ha avuto scosse e non è andata molto lontano dal suo punto di partenza, ecco che
«Limonov, invece, è stato teppista in Ucraina, idolo dell’underground sovietico, barbone e domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei balcani, e adesso, nell’immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados».
Non è questo un aperçu redazionalmente anodino. Secondo la mia lettura è proprio questo il registro con cui va colto il romanzo. Un registro il cui codice retorico implicito rimanda a una contrapposizione tra vite normali e senza bagliori e una vita scintillante, già romanzesca in re ipsa, che attende il suo Carrère per essere sussunta nel cielo purpureo e gemmato della letteratura. «Ah la mia vita è romanzo!» è interiezione che molti di noi aspireremmo poter proferire sapendo di non averne titolo: gente normale e senza gloria ci perdiamo a rate in esistenze grigie e senza sussulti, nella cui esistenza gli eventi si negano (fortunatamente aggiungo io “spaventato” a morte da fatti della vita un millesimo eclatanti rispetto a quelli di Limonov) mentre ci sono eroi che si giocano a dadi a ogni passo la propria occasione terrena.Eduard Veniaminovich Limonov
Questa contrapposizione, intenzionalmente redazionale, tende a stagliare fatti anche turpi della vita di Limonov, quelli dell’abiezione sessuale newyorchese per esmpio lo sono comunque anche per noi tranquilli visitatori dei bassifondi di internet, in un’aura romanzesca in cui basta il tocco sapiente del redattore, nella selezione epica degli eventi, per innalzarlo nel registro alto di gamma del momento di vita clamoroso. Non so: sodomizzare l’amante mentre passa in tivù l’immagine di Solgenitsin: ah il tout Paris sono sicuro s’è passato come un samidzat clandestino questo passaggio dove eros, storia e letteratura battono all’unisono.
Carrère fa dell’onesto adorcismo (il contrario dell’esorcismo); caccia dentro il corpo di Limonov tutti i diavoli dell’inferno sovietico che il Limonov reale invece sputa fuori con la sua opera in proprio: vita dissipata nelle periferie di città grigie, poesia, sesso, dissidenza, vodka e zapoj, le inenarrabili ciucche russe. Ma tutto ciò è filtrato dalla coscienza parigina (in qualche intervista Limonov se la ride di questo borghese parigino che lui sembra in qualche modo intenzionalmente épater con la sua mitopoietica ed enorme esistenza). È come se lo sguardo parigino, frizzante come lo champagne e soggetto ad alterazione visiva di Carrère, incontrasse l’afrore sarmatico del caviale del Volga: da dove l’effetto chic e choc della prosa e dell’intonazione stilistica nel suo complesso.
Si dirà che il libro di Carrère non è solo la biografia romanzata di un personaggio estremo. È uno sguardo per nulla distratto, anzi piuttosto partecipe e circostanziato su ciò che è stato il “Dio che ha fallito”, il comunismo; ossia il crollo di una utopia sociale, politica, intellettuale e morale immensa, che ebbe una risonanza fragorosa e smisurata nell’installarsi e un’uscita alla chetichella, con un semplice ammainabandiera, nel suo eclissarsi e dunque con risvolti tragici e comici ad un tempo, come in una pièce di Cechov. Ma che ebbe nel suo corso aspetti singolari su cui poco si riflette. Mi aiuta a esplicitare ciò che mi appresto a dire un’osservazione dello storico americano Martin Malia riportata intelligentemente da Carrère.
«Il socialismo integrale non è un attacco a determinate storture del capitalismo ma alla realtà stessa. È un tentativo di sopprimere il mondo reale, un tentativo a lungo termine destinato a fallire ma che per un certo periodo riesce a creare un mondo surreale fondato su questo paradosso: l’inefficienza, la povertà e la violenza sono presentate come il bene supremo».
È proprio da questa dimensione surreale, di vera e propria finzione e di autofinzione, già di per se stessa romanzesca, da questo tipo di deviazione dal mondo reale che fu nei fatti per quasi un secolo la realtà sovietica, che nacque quell’opera di fiction memorabile sotto forma di agghiacciante apologo che è 1984 di Orwell.
È bene ricordare tutto ciò anche a corredo e necessaria integrazione delle distinzioni operate da Bobbio, in un suo memorabile articolo sulla “Stampa” di qualche decennio fa, tra comunismo e nazismo. Il socialismo reale, quell’impasto di utopia, violenza, ottusità burocratica fu un male assoluto e procurò massacri e sofferenze infinite alle popolazioni che lo subirono. Ma metterlo sullo stesso piano del nazifascimo ha un senso solo se si fa una macabra conta dei morti. Nessun senso invece se lo si mette sul piano delle idee, che è quello che più importa in tema di dottrine politiche. Norberto Bobbio rammentava che certamente c’è una differenza importante tra i due totalitarismi: usavano gli stessi mezzi atroci e disumani, ma mentre nel nazismo erano ugualmente condannabili sia i mezzi sia i fini, invece nel comunismo lo erano i mezzi non i fini, spesso nobili (liberazione dall’oppressione dei rapporti di lavoro, pari dignità sociale dei cittadini) e aggiungeva che il comunismo era una ‘utopia capovolta’, perché era un’utopia di liberazione degli esseri umani che si era rovesciata nel suo contrario, e cioè nella costrizione e nell’oppressione degli esseri umani. Ecco, io aggiungerei a ciò, sulle tracce di Malia, che il comunismo inverato esibiva qualcosa di più atroce se possibile. Oltre al fatto di esser durato quattro volte gli anni del nazismo, ha modificato così tanto gli statuti ontologici della realtà da essersi sostituito, da vero saprofita della vita individuale e collettiva, alla realtà medesima. Tanto da aver messo al mondo reale narrazioni parallele che il regime esponeva e che la gente si autonarrava, facendosele credere vere. Un regime falso nel mondo “numero uno” del reale e falso nel mondo “numero due“ dell’immaginario, senza nessuna scappatoia onirica dunque nell’altra dimensione della libera narrazione che ciascuno si può fare rispetto a un mondo che non gli piace. Oltre che un sistema politico-economico folle, anche una narrazione in sé allucinata, da dove sortivano belli e fatti questi personaggi come Limonov, in attesa del loro Carrère .
Libro di intrattenimento, seppure delle zone alte dello spirito, là dove si agitano le idee, “Limonov” si consegna agli umori favorevoli di un pubblico di lettori che in Italia è accorso numeroso, e si spera anche non disattento, che sappia cogliere ossia dietro le pose di un Lebenskünstler – una simpatica canaglia dai tratti amplificati in una focalizzazione eccessiva-, il dramma di pagine non ancora chiuse della storia. E viene da dire a tal proposito parafrasando una celebre battuta di Dino Risi a Nanni Moretti: “Limonov spostati, e facci vedere la Russia”.