Uscito nelle librerie americane una settimana fa ma già oggetto di ampio dibattito, “Lean In” (In italiano: Facciamoci Avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire) è già diventato non solo un best seller ma il benchmark del dibattito su leadership femminile e gender gap negli Stati Uniti. Scritto da Sheryl Sandberg, ora direttrice operativa di Facebook e anteriormente vicepresidente di Google, “Lean In” si rivolge alle donne che vogliono una carriera brillante e una vita famigliare soddisfacente, spiegando cosa dobbiamo (e possiamo) cambiare per arrivare, finalmente, ad “avere tutto”.
Manca ancora molto, anche negli Stati Uniti. Delle 500 maggiori imprese americane per fatturato (le cosiddette Fortune 500), solo ventuno sono guidate da donne: il 4,2%. Alla radice di questo divario c’è, secondo la Sandberg, la differenza in ciò che la società valorizza e stimola, fin dall’infanzia, nei due sessi. Mentre le bambine, infatti, vengono educate per essere soprattutto modeste e gentili, ai bambini si insegna ad assumere un atteggiamento più sicuro e ambizioso. Ecco dunque spiegato come, secondo uno studio della Michigan University con studenti delle scuole medie americane, quando interrogati sul proprio rendimento in matematica (un campo di dominio tradizionalmente maschile), le ragazze riferiscono di aver ottenuto voti inferiori a quelli realmente avuti; i ragazzi, invece, superiori.
Perché si insegna alle donne a sminuire il proprio valore? Secondo la Sandberg, la ragione sta nel fatto che, mentre per gli uomini successo professionale e riconoscimento sociale vanno di mano in mano, per le donne la carriera si paga spesso con la solitudine. Non è una novità. Molte donne in posizioni di potere ne hanno parlato, da Christine Lagarde a Hillary Clinton. Mentre il potere rende gli uomini affascinanti, alle donne, a detta di molti, non dona: le fa apparire fredde, poco autentiche, troppo ambiziose o semplicemente “maschili”.
Se c’è un posto, poi, nel quale le donne hanno fatto davvero pochissima strada nel cammino alla parità dal dopoguerra ad oggi è la casa. Secondo Rosanna Hertz dell’Università della California, in coppie con donne e uomini della stessa professione, le donne riportano di avere più flessibilità sul lavoro che i loro compagni per giustificare una divisione del lavoro domestici ancora largamente iniqua. Oppure, in mancanza di flessibilità, sono in genere le donne a lasciare il proprio lavoro. Secondo la Sandeberg, questo non è un caso: le donne iniziano a limitare le proprie opportunità di carriera per dare spazio alla vita domestica e famigliare spesso anni prima di avere figli, pertanto al momento della maternità si ritrovano molte volte ad avere posizioni meno stimolanti e pagate dei loro colleghi, quindi lavori più facili da sacrificare. Cinquant’anni dopo la La mistica della femminilità di Betty Friedman, insomma, a limitare le donne non è più tanto la mancanza di aspirazioni, ma l’impossibilità di realizzarle. E cosi, mentre il 72% delle donne e degli uomini tra i 18 e i 29 anni dice di considerare che i matrimoni migliori sono quelli in cui entrambi lavorano, solo il 30% dei padri che dichiara di voler partecipare equamente ai compiti domestici lo fa veramente.
Il libro della Sandberg rappresenta un balzo in avanti di anni luce rispetto a Womenomics, il best seller pubblicato da Claire Shipman e Katty Kay quattro anni fa, che aveva finora dettato il trend del dibattito sulle pari opportunità negli Stati Uniti. Semplificando, il messaggio centrale di Womenomics era che le donne dovevano “lavorare meno ed essere più felici”, principalmente puntando su forme di lavoro flessibili e scegliendo, se necessario, posizioni meno retribuite, ma che permettessero loro di potersi creare (e godere) una vita domestica e famigliare piena. In questa logica, le donne raggiungerebbero la soddisfazione trovando definizioni nuove di successo lavorativo, diverse rispetto a quelle maschili. Le implicazioni di un ragionamento di questo tipo sono chiare: cari uomini, delle donne leader non ci si può fidare, perché, nella scelta tra carriera e famiglia, daranno sempre priorità alla dimensione domestica. In questa logica, non c’è posto per gli uomini che vogliono avere un ruolo maggiore nella vita famigliare, ne’ per le donne che non nono desiderano avere figli o trovano nella carriera e non nella dimensione domestica la loro felicità. E poi c’è la differenza più importante di tutte: il mondo di Womenomics è un mondo che immobilizza lo status quo, offrendo una scappatoia piscologica ed emotiva alla frustrazione delle donne, invece di cercarne una soluzione a livello collettivo e politico. Glorificando l’ambizione femminile e chiedendo un ruolo di maggiore partnership da parte degli uomini, la Sandberg cerca invece la soluzione al gender gap non nella sfera individuale, ma nelle trame del tessuto sociale in cui uomini e donne si muovono.
Sia Womenomics che Lean In hanno però un grande limite, da sempre il limite e il peccato originale del femminismo: si rivolgono alle donne americane delle classi medio-alte, per le quali il lavoro è scelta e identità, non necessità economica. Quelle donne che ricoprono posizioni importanti e ben retribuite nelle grandi imprese, ad un passo dall’entrare nel consiglio d’amministrazione. E mentre la Sandberg spiega perché quel passo va fatto, Shipman e Kay argomentano che non è quel passo a fare la felicità, anzi. Per la maggior parte di noi, purtroppo, le scelte non sono queste e dilemmi di questo tipo possono finire per far aumentare, invece che diminuire, le nostre frustrazioni. Anche per le noi, però, le riflessioni di Womenomics e Lean In possono avere un enorme valore, soprattutto se sono in grado di diffondere il dibattito sul gender gap e l’ambizione femminile, facendolo uscire dai banchi accademici per portarlo negli show televisivi e sui media più letti. E non bisogna a tutti i costi guardare all’America. Donne in gamba ne abbiamo anche noi e libri ricchi di riflessioni profonde anche di più. Per esempio, io sto leggendo Senza Una Donna di Alessia Mosca e Flavia Perina e sono convinta che c’è sempre speranza, anche nel Paese più maschilista d’Europa, quando si inizia il dialogo su potere, famiglia e diritti.