Di recente la Casa del Cinema di Venezia ha riproposto, all’interno di una rassegna sul regista Eric Von Stroheim, la proiezione del classico dei classici del cinema francese, La Grande Illusione di Jean Renoir. Un film noto – anche se, a causa della censura di Regime che lo considerava troppo “antimilitarista”, in Italia ci arrivò solo nel ’47, – che però non smette di interrogarci su molti temi. Un film che forse, oggi, è persino più necessario di ieri.
La storia è conosciuta: si tratta delle vicende di prigionia di un gruppo di ufficiali francesi abbattuti in territorio tedesco. De Boeldieu, aristocratico capitano dai modi raffinati e dallo spirito salace; Maréchal (Jean Gabin), un ufficiale “per caso” che viene dal popolo; Rosenthal, un ricco ebreo à la Rothschild. I tre si incontrano nel campo di prigionia di Hallbach, dove si progetta una fuga (archetipo di tante altre grandi fughe cinematografiche) attraverso un tunnel scavato con le lattine del rancio. L’evasione, tuttavia, fallisce a causa del trasferimento di alcuni internati, tra i quali i tre ufficiali, nella fortezza/prigione di Wintesborn.
Nel castello, che assomiglia molto alla fortezza che in quel periodo ospitava anche un giovane Charles De Gaulle, Boeldieu e Maréchal ritrovano il capitano Von Rauffenstein (Von Stroheim), ufficiale dell’aeronautica tedesca anche lui aristocratico, demandato alla supervisione della prigione a motivo delle ferite riportate in un combattimento aereo.
Dopo una serie di alterne vicende, spesso anche comiche (basti ricordare la reazione dei prigionieri russi che aprono la cassa di “viveri” inviati loro dalla Zarina Alessandra e scoprono che è piena di libri invece che di vodka…), i tre riescono ad escogitare una fuga anche dalla nuova prigione. Solo due però potranno scappare, un terzo dovrà sacrificarsi per distrarre i militari tedeschi. Senza lasciare spazio alla discussione, l’altezzoso Boeldieu si immola, salendo a suonare un flauto sugli spalti della fortezza e infine morendo, mentre Maréchal e Rosenthal riescono a scappare e ad arrivare in Svizzera.
Perché mai – ci si potrebbe chiedere – un film di guerra nel 2013 ? Perché, bisognerebbe rispondere, è nella guerra che viene fuori davvero l’animo degli uomini. Perché è nella guerra, forse, che l’uomo decide se vuole rimanere uomo o diventare animale. Perché, infine, è la guerra che ha calcato da protagonista le scene del secolo appena trascorso.
Renoir ci presenta innanzitutto un’etica, quella aristocratica, ormai scomparsa. E già questo basterebbe a giustificare la visione del film anche nelle scuole. L’etica dei Boeldieu che muoiono per salvare i compagni; l’etica dei Von Rauffenstein, che invitano a colazione al Circolo Ufficiali tedesco i due piloti francesi subito dopo averli abbattuti (e si tratta di storia vera giacché è episodio documentato da molti anche nella vita di Manfred von Richtofen, meglio noto come il Barone Rosso); l’etica di quella classe di uomini che se erano divisi per nazionalità, erano ancor di più accomunati da una stessa educazione, da un medesimo fair play, da un sentire raffinato ed elegante.
Vale la pena di soffermarsi, proprio oggi, su quest’aspetto che accomuna il film francese di Renoir alla pellicola inglese di Powell e Pressburger dal titolo Duello a Berlino (The Life and Death of Colonel Blimp), la storia di un soldato inglese di “buona famiglia”, Clive Candy, che si batte a duello con un collega tedesco, Theodore Kretschmar-Schudorff, per “difendere l’onore dell’Inghilterra” che era stato messo in dubbio dalla propaganda prussiana dei primi del novecento. I due divengono amici – dopo essersi lealmente feriti in un assalto alla sciabola, – e si innamorano della stessa donna (Deborah Kerr). Lei sceglie il tedesco e Candy si fa cavallerescamente da parte, sposando, in seguito, un “clone” di quella donna perduta. Il film finisce agli albori del secondo conflitto mondiale, con Theodore profugo in Inghilterra, esule antinazista, che viene accolto dall’amico Clive, generale ormai in pensione.
Sebbene al lungometraggio di Renoir manchi l’ironia tutta britannica del film di Powell & Pressburger – d’altra parte, è una questione di carattere nazionale, – ha in comune con esso l’esaltazione di quei valori, “l’onore, lo spirito di casta, l’amore, l’amicizia, che la cultura del Novecento ha rimosso o screditato” (Morandini), e perciò è così necessario in un’epoca come la nostra che ha fatto del tornaconto personale un nuovo Evangelio.
L’altezzoso Boeldieu che si sacrifica per gli amici “popolani” rappresenta quel mondo, ucciso dalle due guerre mondiali, che tanti scrittori hanno immortalato e che oggi sembra lontano quanto, per converso, lo possono essere dal nostro i mondi di George Lucas e di Guerre Stellari.
Bellissima la scena dei soldati vestiti da donna che intonano la Marisgliese, accusa feroce all’insensatezza di tutte le guerre, così come da ricordare, tra tutte, la sequenza in cui Maréchal e Rosenthal, a fine film, procedono affondando nella neve verso la Svizzera – due puntini neri nel bianco accecante delle montagne – e fanno dire, in un empito di umanità, a un sergente tedesco che li aveva avvistati: “Lasciateli andare, sono già in Svizzera, poveri diavoli”.
Si potrebbe andare avanti a parlare di Boeldieu, ormai sul letto di morte, che rassicura Von Rauffenstein, affranto per averlo colpito all’addome invece che alle gambe, dicendogli che non è stata colpa sua, che era sera e si vedeva poco: scambi di cortesie tra gentiluomini d’altri tempi. Essendo un film praticamente perfetto, si potrebbe continuare ad analizzarne ogni singola parola all’infinito per scoprire solo che, come a volte succede, è un’opera completa che non abbisogna nemmeno di analisi.
Forse – e c’è da sperarlo, – basterebbe che almeno uno di quegli spettatori che hanno scelto di sfidare il freddo per “rivedere” un film del 1937, tornassero a casa serbando il ricordo di Von Rauffenstein che recide il gambo dell’unico fiore presente nella fortezza/prigione per posarlo sul petto di De Boeldieu, ormai spirato. La guerra combattuta con fair play, la guerra dei gentlemen sportsmen, prima del Napalm e di Guantanamo.