Il tenace, il monaco, quello “con la rabbia nera dentro”. Il taciturno, l’integralista, l’insoddisfatto. Pietro Mennea è da ieri nella Camera ardente allestita nel Salone d’onore del Coni. Lo vanno a salutare in tanti. Gli amici e molti, moltissimi italiani normali cui aveva regalato il sogno dell’oro olimpico, del record che resiste, della “freccia azzurra” che tiene testa ai neri.
Mennea è stata una figura emblematica. Sì, l’Italia che ce la fa, l’Italia che si riscatta. Ma, nello stesso tempo, è stato un alieno, Mennea. In un paese che fa dell’improvvisazione un vanto e della creatività un feticcio che diventa molto spesso un alibi. Ci vuole sudore, fatica e – soprattutto – metodo e disciplina per diventare Mennea. Che è grigia, ripetitiva, metallica, la disciplina. Inumana. Forse anche anti-italiana.
Nei giornali di questi giorni c’è stato un ribollire di commenti, di ricordi, di testimonianze. Io l’ho allenato, io ci ho litigato, io l’ho intervistato. Tutti hanno un frammento di Mennea. Tra i tanti articoli vorrei che leggeste questo pezzo di Emanuela Audisio. No, non è di ieri e non risente quindi della commozione del momento. E’ di un anno fa e nella chiusa c’è una frase che spiega chi era Mennea: «5482 giorni di allenamento, 528 gare – risponde – A 60 anni non ho rimpianti. Rifarei tutto, anzi di più. E mi allenerei otto ore al giorno. La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni».
Ecco chi era Mennea. E’ per questo che quando ho letto il twit di Roberto Saviano – uno scrittore con il complesso del meridionale – mi è venuto un po’ da ridere. Un twit vagamente razzista per eccesso piagnone. “Mennea… Che ha fatto vedere come corre un uomo del sud”. Ma che vuol dire? Come vuoi che corra “un uomo del sud”? Con le gambe e con i polmoni, come tutti. E Mennea ci metteva dentro qualcosa di tedesco, di folle, di calvinista.