Ancora poche ore alla fine delle consultazioni per il nuovo Governo. Fin dall’inizio di questa fase, Pierluigi Bersani ha detto no ad accordi con il Pdl, sostenuto da tutto il suo partito (almeno ufficialmente).
Ma la manifestazione di sabato scorso, 23 marzo 2013, in Piazza del Popolo a Roma è servita per lanciare un messaggio chiaro: Silvio c’è. Leggiamo, allora nelle pieghe del discorso del leader (con la wordcloud di Voleteilmiovoto).
L’appello al popolo – un classico del discorso berlusconiano – la fa da padrone. Il mainstream del comizio si coglie nelle parole “popolo”, “Italia”, “italiani”, “paese”, “insieme”. Il popolo per Berlusconi è da sempre il richiamo ad un rapporto organico e diretto con il leader. Il popolo è quello italiano, ma è anche quello delle libertà. Il richiamo costante e sistematico al popolo è la ragione per cui il soggetto politico guidato da Berlusconi viene assegnato alla famiglia dei populismi. Ma non è questo il punto. Il richiamo di sabato scorso al popolo, all’Italia, al paese, stavolta, non pare soltanto il classico schema per galvanizzare le truppe. Pare piuttosto un messaggio a chi ha in mano – almeno per ora – il pallino della formazione del governo. Il messaggio è: noi siamo il “partito italiano” (quello che si diceva della Democrazia cristiana). Qualsiasi cosa si faccia senza di noi, si fa escludendo il popolo italiano.
In questo senso, il “voto”, altra parola chiave, rappresenta allo stesso tempo la linea di faglia, la legittimazione, la minaccia, la battaglia. Linea di faglia: perché prima sembrava che tutto fosse perso, che il giaguaro fosse smacchiato e che gli avversari fossero già a Palazzo Chigi; dopo però tutto è stato rimesso in discussione. La legittimazione: perché il voto è da sempre l’acqua santa che lava tutte le impurità, specie quelle giudiziarie. La minaccia: perché se non si riuscisse a formare il nuovo governo si ritornerebbe alle urne a giocarsi non poche chance di vittoria. La battaglia: perché la chiamata alle armi del proprio popolo è il genere letterario preferito dal leader. E così la “campagna elettorale” ritorna ripetutamente: non solo perché è stata l’occasione della recente rimonta, ma perché è da sempre il luogo mistico del rapporto col popolo e oggi, in particolare, può tornare ad essere il campo di battaglia.
Ritorna poi, nel discorso di Berlusconi, la tradizionale contrapposizione tra “noi” e “loro”. “Loro” sono, ovviamente, la “sinistra” e “Bersani”. Il campionario è vasto: “siamo diversi da loro”, “più forti del loro odio”. Loro, la sinistra, sono “spinti solo dal desiderio di potere, dall’invidia e dall’odio sociale”. Bersani è quello che pensa “al suo interesse e alla sua salvezza e non all’interesse e alla salvezza del Paese”, non si rivolge al Pdl, gli preferisce i “turisti della politica” di Beppe Grillo.
A questa si unisce un’altra classica contrapposizione. Quella tra “Stato” e cittadini. I cittadini sono i vessati. Lo Stato è il grande “nemico”. Lo macchina dello Stato “non soltanto costa ad ogni cittadino italiano il 30% in più di quel che costano gli altri Stati ai loro cittadini”, in più “ci impedisce di intraprendere, di lavorare, di sentirci liberi cittadini”. Chi resta schiacciato, insomma, da questo stato vessatore (ritorna tre volte l’attacco ad “Equitalia”) sono le “imprese” e il “lavoro”. Imprese e lavoro: termini che danno concretezza al discorso populista, toccando in profondità gli interessi concreti e immediati delle persone.
Val la pena, poi, sottolineare altre due parole: “forza” e “libertà”. La prima rimanda ai soggetti che in campo si fronteggiano. Forze contrapposte, positive e negative: laddove il crinale è dato dall’appartenenza o meno al proprio campo. Ma la forza è anche quella vigoria carismatica che aleggia nel berlusconismo dagli albori, dalla fondazione di Forza Italia. La seconda parola è libertà. Usata – come spesso in passato – con due significati distinti: come fine dell’impegno politico del Pdl e come identità che forgia il suo popolo.
Tutto vecchio, dunque? Certamente no. Le parole chiave di questo discorso a nostro avviso sono altre e precisamente: “Presidente” e “Capo dello Stato”. Silvio Berlusconi si è soffermato a lungo sui vertici dello Stato: il Presidente del Senato e il Presidente della Camera, appena eletti; il Presidente del Consiglio, con il pre-incarico affidato a Pierluigi Bersani. Tre figure che provengono dal campo della sinistra. E tuttavia, cariche tutto sommato poco significative. Perché la legislatura durerà certamente poco, in presenza di uno strano tripolarismo, fatto di poli che hanno in sostanza gli stessi voti. E perché qualsiasi Presidente del Consiglio avrà vita dura e instabile al comando di un esecutivo fragile e a tempo determinato. La partita si gioca, dunque, sul Capo dello Stato. Questo sì, incarico cruciale, perché sganciato dalle debolezze della politica. Il Presidente della Repubblica durerà sette anni. Per questo Berlusconi lo mette sul piatto insieme ai suoi voti con l’intenzione di ricordare che la via che porta al governo passa obbligatoriamente dal Pdl.
Per quanto tempo ancora Bersani e il Pd potranno far finta di nulla? Il tempo è ormai scaduto.
@vittorioferla