Lunedì 22 aprile sarà ricordato per due motivi.
Il più importante è, ovviamente, il discorso di insediamento di Napolitano di fronte alle Camere riunite, tutt’altro che rituale. L’altro, tutto politico, è l’intervista del candidato premier Matteo Renzi, che riceve una investitura di fatto da parte di Repubblica, il giornale-partito per eccellenza. Mettiamo a confronto i due testi, con l’aiuto delle wordcloud realizzate da Voleteilmiovoto.
Al di là dell’interpretazione del proprio ruolo, quale emerge anche da fatti stringenti di questi mesi, Napolitano dimostra ancora di aver ben chiara la centralità del “Parlamento”. Tant’è vero che il termine ritorna 13 volte nel suo discorso di insediamento.
A volte per sancirne l’incapacità di affrontare e risolvere i problemi istituzionali delle ultime settimane, per sottolineare la cattiva gestione dell’eccesso di rappresentanza nelle Camere (in particolare, da parte del Pd), per ricordare ai grillini che contrapporlo alla piazza è operazione pericolosa.
Altre volte, il Parlamento risuona negli inviti a far presto e ad affrontare i problemi urgenti delle persone (prima di tutto il lavoro) e del paese (per esempio, lo sviluppo del Mezzogiorno). Ma il Parlamento è, nella visione del Presidente rieletto, il luogo della ricerca delle soluzioni di governo condivise. La sua disponibilità è legata a questo impegno. Ciò significa, in primo luogo, che un governo si farà. In secondo luogo che, in mancanza dell’impegno necessario da parte di tutte le forze parlamentari, Napolitano assumerà le decisioni derivanti dalla recuperata pienezza dei suoi poteri (poteri che vanno dallo scioglimento delle Camere alle sue stesse dimissioni).
Il messaggio è chiaro: in futuro, il mancato appoggio al governo del “Presidente” porterà dritto alla caduta del Parlamento. L’evoluzione del nostro sistema politico verso uno sbocco presidenziale è ormai nelle cose. Lo dice Napolitano fin dall’inizio del suo discorso per ricordare che in un sistema parlamentare il Presidente non dovrebbe essere rieletto, salvo situazioni eccezionali. In altre parti del discorso spiega che il Presidente non deve dare mandati alle Camere, ma, poco dopo, ricorda di avere accettato solo a condizione che un governo si faccia. Insomma, la parola “Presidente” giganteggia sempre più nel rapporto con il Parlamento.
L’altra espressione ricorrente è “forze politiche”. Anche questo non è un caso. Siamo lontani dai discorsi di investitura del passato nei quali i Presidenti neoeletti, a volte con frasi di circostanza, erano chiamati a volare molto alto, richiamandosi ai valori della Repubblica, alle Istituzioni dello Stato, alle garanzie dei cittadini e via elencando. Questo Presidente è molto più ‘politico’ e si comporta come tale. Dialoga direttamente con i suoi ‘grandi elettori’ (e fra questi non c’è il Movimento 5 Stelle, che diventa l’unica opposizione). Semplicemente perché rappresentano la sua (strana) ‘maggioranza’. E devono sbrigarsi a fare un “governo” e ad offrire “soluzioni”.
A proposito di ‘soluzioni’. Come abbiamo scritto in apertura, in mattinata, prima del discorso di insediamento di Napolitano, era apparsa su Repubblica la lunga intervista a Matteo Renzi. Una vera e propria investitura politica.
Il contenuto delle parole del sindaco di Firenze si è già modificato rispetto ad altre nostre precedenti analisi.
Le due parole ricorrenti sono adesso “partito” (che ritorna almeno 15 volte) e “governo” (10 volte): sono, questi, i due naturali obiettivi.
Conquistare il primo diventa cruciale: serve per aspirare al secondo poggiando su una base solida. La trasformazione del Pd in un momento in cui il partito ha dato pessima prova è indifferibile. Renzi sa benissimo che può essere premier solo in questo modo. E sa che il partito non è affatto morto, perché nel paese ci sono almeno dieci milioni di potenziali elettori democratici. Semmai è stracotto il suo gruppo dirigente. Si può cambiare l’Italia. Ma per farlo bisogna cambiare il Partito democratico. Ritorna quel rapporto strumentale (prima l’“Italia”, il Pd è solo uno strumento) che Renzi da tempo ha chiarito, con una evidente nota critica verso chi ha messo l’identità prima del “Governo”. La pista è ormai tracciata, i motori sono già su di giri, la macchina aspetta soltanto lo start.
Proprio per questo, Renzi si presenta come l’alternativa a “Grillo” (l’interlocutore che, non a caso, torna spesso nel suo discorso, e sostituisce completamente Bersani e, in qualche modo, lo stesso Berlusconi). La ragione è semplice. Non si tratta soltanto di lasciare il campo alle larghe intese: Renzi, piuttosto, vuole qualificarsi come quel leader riformista che prende le distanze dai rischi di populismo del M5S, ma ne raccoglie le istanze di cambiamento.
“Voglio”, “fare”, “cambiare” sono i verbi ricorrenti di un leader che scalpita, ormai “pronto” per la “sfida”. In primo luogo, nella sua agenda sociale c’è il “lavoro”. L’altro tema è la riforma istituzionale, con la traduzione in campo nazionale del sistema di elezione dei sindaci (il che significa: semipresidenzialismo alla francese).
Due personaggi estremamente diversi, non c’è dubbio, non solo per l’età. Ma c’è qualcosa che lega i due discorsi molto più di quanto appaia.
@vittorioferla