L’elezione di Guglielmo Epifani a segretario del PD è l’ennesima prova di un blocco mentale e culturale, prima ancora che politico.
Epifani è il plenipotenziario del gruppo dirigente che in questi anni ha progressivamente dilapidato ogni vantaggio che pure aveva accumulato grazie agli errori dei Governi Berlusconi. Oggi quel gruppo – intontito dal risultato elettorale e incapace di elaborare la sconfitta – cerca di difendersi in qualche modo.
Prima ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, eleggendo Boldrini e Grasso alla Presidenza delle Camere. Poi ha dovuto ‘accontentarsi’ di un governo di larghe intese nel quale l’azionista principale è diventato l’acerrimo avversario (che oggi può esercitare poteri di vita e di morte sull’esecutivo). Infine, è riuscito a ricollocare nel governo e alla presidenza delle Commissioni parlamentari tutti i maggiorenti che avevano fallito obiettivi più prestigiosi. Illustri sconfitti – anche giovani – sono stati premiati al di là dei loro stessi proclami: basti pensare a Stefano Fassina, viceministro all’Economia in un governo di larghe intese che aveva rinnegato fino al giorno prima.
Nulla di strano che alla guida del partito oggi vada l’ex leader della Cgil. Ma qui la paralisi si arricchisce di limiti culturali. La Cgil rappresenta l’ultimo antico baluardo di un progetto che non c’è più e, viceversa, l’ultima cittadella di un’organizzazione che c’è ancora.
Da una parte la Cgil è il sindacato dei pensionati, molto più che dei lavoratori. E, guarda caso, il Pd è il partito che ottiene tra i pensionati il suo massimo successo elettorale (37% dei voti). Ovviamente, nulla contro i pensionati. Ma appare evidente che un partito asserragliato in una unica categoria sociale – non più produttiva e assistita per definizione – difficilmente può offrire slanci di cambiamento e opportunità di progresso. Il fatto che un leader di un’organizzazione come la Cgil abbia l’esperienza necessaria per gestire un’organizzazione complessa e offra capacità di mediazione tra le diverse anime è davvero poca cosa rispetto alle sfide che premono alle porte, ma non vengono nemmeno percepite.
Qui c’è una sfida prima di tutto culturale, appunto. La sconfitta elettorale non è un caso, ma il frutto di errori di valutazione e, soprattutto, di carenze e ritardi nella lettura della società italiana e della nostra amministrazione pubblica. Fin quando il Pd non affronterà questo tema, cercando di comprendere quali sono le forze sociali più innovative e quali sono le strade da intraprendere per costruire una proposta riformista incarnata nel tempo presente (e non espressione di uno schemino stantio), le operazioni di ristrutturazione della dirigenza resteranno semplice cosmesi. L’augurio è che il tempo verso il Congresso sia utilizzato a questo scopo.
@vittorioferla