Riparliamo di selezione degli insegnanti.
Dietro questa parola, “selezione”, aborrita negli anni ’70 perché sentita ingiusta e anti-egualitaria, c’è l’idea che si possa scegliere la qualità del corpo docente che mandiamo in aula ogni giorno, nelle nostre scuole, e a cui affidiamo in buona parte lo sviluppo umano dei nostri figli. Aspetti delicati e drammatici, che vengono certamente prima di quelli, privi forse di pathos per quanto importanti, che riguardano lo sviluppo di un Paese, sapendo quanto l’istruzione sia decisiva e quale costo sociale, economico e umano comporti l’ignoranza (un libro di Marco Meloni per l’Arel, Il costo dell’ignoranza, con vari interventi lo dice oltrettutto nel dettaglio).
Si tratta però di questioni che, vuoi il portato del nostro passato, vuoi per le tante accezioni negative del verbo “selezionare”, sedimentate nel nostro inconscio, non riusciamo a comprendere. Paradossalmente nemmeno quando le cronache portano alla ribalta, non solo e non tanto inadempienze gravi alla funzione insegnante, ma addirittura storie truci di violenza e sopraffazione, come è accaduto nelle scorse settimane.
Qualcosa però sta cambiando e dobbiamo registrarlo. Voci diverse, che toccano la questione da angolature differenti ma che paiono convergere.
Innanzitutto la ministra dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, che ha detto, in una dichiarazione, di voler mettere la testa sulla questione “per liberare finalmente quanto c’è di buono nella scuola e nei suoi insegnanti”. Poi, nei giorni scorsi, Daniele Checchi, economista della Statale di Milano, è intervenuto, con la consueta serietà, sul tema dei concorsi sulla Voce.info, chiarendo come le modalità concorsuali possano essere migliorate e rese più efficaci.
Quindi, in ultimo, ma non per ultimo, Emanuele Contu, responsabile Scuola del Pd milanese che, qualche giorno fa, è intervenuto ricordando a tutti, anche nel suo partito forse, che “l’autonomia scolastica che non possa scegliersi i docenti è zoppa”. Qui il suo blog.
Non bastasse, sul tema si conta anche la coraggiosa idea di autogestione delle scuole proposta da Andrea Ichino e Guido Tabellini in Liberiamo la Scuola, appena uscito nei Corsivi del Corriere.
Ce n’è abbastanza per dire che, forse, è venuto il momento di ragionare sul modello concorsuale e chiedersi se non abbia sostanzialmente fatto fallimento.
Se la gestione della scuola italiana non pare oggi essere all’altezza delle sfide che aspettano i nostri studenti, è anche colpa di questo sistema ormai inadeguato, che seleziona, in linea teorica, in base alle competenze e non anche a partire dalla capacità di insegnare.
Gli insegnanti sono la vera chiave di volta della qualità dei processi formativi messi in campo: ormai, oltre al buon senso, anche l’evidenza scientifica lo dimostra. I concorsi non hanno finora creato una classe di docenti di qualità sufficiente. È allora necessario, per usare appunto le parole altrui, “liberare la scuola” e soprattutto liberarla dai concorsi. Bisogna cioè fare un passaggio culturale, epocale se vogliamo, e pensionarli con le loro graduatorie ottocentesche.
Occorre istituire un’abilitazione nazionale ferrea, consentendo a ogni scuola (ai dirigenti scolastici resi formalmente autonomi, come spiegava Contu, ma senza strumenti per esserlo) di poter scegliere i docenti più adatti, potendoli anche cambiare se si rivelassero inadeguati. Una scuola libera “ma libera veramente”, come cantava Eugenio Finardi delle prime radio.
Per farlo, però, si deve subito metter in campo un sistema di formazione dei dirigenti scolastici, vera classe da riformare, con un programma radicalmente innovativo.
Per loro occorre infatti una formazione che non si basi esclusivamente sulla conoscenza delle leggi – vien da piangere anche a scriverlo – e crei figure di dirigenti che siano esperti di didattica ma anche di risorse umane, che sappiano di edilizia scolastica ma anche di digitale. E poi, naturalmente, valutare i risultati formativi delle scuole, premiando o penalizzando i dirigenti di conseguenza.
Ma questa è un altra storia. La solita.