Dopo le manifestazioni che hanno accompagnato le partite della Confederations Cup molti, probabilmente gli stessi che fino a qualche mese fa ci dicevano che il Brasile era il nuovo bengodi, destinato a un futuro di inarrestabile crescita, ci raccontano di un paese sull’orlo del caos, preda di una gravissima crisi economica, che ha cancellato i progressi degli ultimi anni.
Sbagliano, ovviamente, come sbagliavano qualche mese fa nel dipingerci un quadro solo a tinte rosee.
Il Brasile continua ad essere un paese con solide istituzioni democratiche, ricco di opportunità e di risorse, che ha beneficiato negli ultimi 15 anni di una straordinaria crescita economica, che ha visto avanzare soprattutto le classi medio-basse, cambiando il suo profilo sociale economico.
Ma i miracoli non avvengono neppure a quelle latitudini, e dunque il rallentamento dell’economia e il risorgere dell’inflazione (ne abbiamo parlato qui) hanno messo in luce fragilità antiche, diffondendo ansia e incertezza tra i ceti più esposti al rischio di perdere un benessere conquistato a così duro prezzo negli ultimi anni.
L’ultimo sondaggio mostra la credibilità di Dilma Rousseff, presidente in carica, in pezzi, al 30%, contro il 57% di poche settimane fa, un indice che ancora inizio anno viaggiava a livelli record. È un dato molto preoccupante, per una presidente al primo mandato che si appresta a riaccendere i motori della macchina elettorale, per le presidenziali previste a ottobre 2014.
È una situazione che espone come nervi scoperti i punti deboli del suo sistema politico, teatro di un singolare “presidenzialismo di coalizione”. Il presidente è il capo dell’esecutivo, eletto direttamente dalla popolazione in un’elezione a doppio turno cui partecipano (vista anche l’obbligatorietà del voto) 135 milioni di persone, ed è dunque forte di un’amplissima legittimazione democratica. Eppure deve negoziare le principali misure con un parlamento balcanizzato, complice un sistema proporzionale puro che gli impone coalizioni anche di dieci partiti, come quelli dell’attuale maggioranza, raccolta intorno al Partido dos Trabahadores di Dilma.
Non sorprende allora che la ricerca del compromesso lasci spesso il passo alla corruzione, che in taluni periodi è stata elevata a vero e proprio sistema, come ha svelato ai disillusi cittadini brasiliani lo scandalo del mensalão,visto che il presidente raramente dispone di una maggioranza propria in Parlamento, e si trova spesso costretto a negoziare il sostegno alle proprie proposte tra parlamentari che cambiano schieramento con grande disinvoltura.
La stessa Dilma, pochi giorni fa, sollecitata dall’onda di proteste, ha lanciato l’ipotesi di una grande consultazione popolare sulla riforma della politica, da tempo accarezzata dai partiti più grandi, che allo scopo di ridurre il potere di ricatto dei partiti minori modifichi il sistema elettorale in senso maggioritario.
Del resto, come ha rilevato Demetrio Bagnoli, della Universidade de São Paulo, «nel sistema brasiliano i partiti servono a occupare posti di governo, più che a dare rappresentanza agli interessi», un’affermazione che suona singolarmente familiare per un osservatore italiano.
Come suona familiare la fortissima crisi di credibilità di questi partiti, che in verità in Brasile non hanno mai goduto di forte radicamento, costituendo semplici piattaforme elettorali per leader pronti a cambiare squadra in caso di opportunità.
La verità è che il paese è da sempre culla di forti movimenti sociali (pensiamo alla CUT, la potente centrale sindacale, o al MST, il movimento dei lavoratori agrari che si spende da decenni per la riforma agraria), che negli ultimi decenni hanno a lungo guardato al Partido dos Trabalhadores come al loro “braccio” politico.
Quando però questo è finalmente andato al potere, nel 2003, i compromessi cui è stato costretto nella gestione del governo gli hanno alienato le simpatie dei movimenti ad esso a lungo collaterali, come reso plasticamente evidente nella lettera con cui oltre 500 organizzazioni ecologiste già a ottobre 2003 denunciavano la politica ambientale del governo Lula.
Nelle ultime settimane, semplicemente, queste organizzazioni hanno ripreso l’iniziativa politica, dando rappresentanza a quei nuovi ceti, protagonisti della crescita economica degli ultimi anni e tuttavia ancora privi di una voce propria. Si tratta di una mobilitazione dal basso, con un’organizzazione embrionale, che deve molto a internet e alle reti sociali, e senza bandiere di partito.
È forse presto per dirlo, ma l’era della politica 2.0 potrebbe trovare proprio in Brasile un laboratorio d’avanguardia.
@diegocorrado
Diego Corrado è autore di BRASILE SENZA MASCHERE. POLITICA, ECONOMIA E SOCIETA’ FUORI DAI LUOGHI COMUNI, Università Bocconi Editore