Il caso Snowden ha l’indubbio merito di aver chiarito un aspetto: per essere riconosciuti ufficialmente come “dissidenti” non bisogna rivelare imponenti meccanismi di spionaggio attuati, sul fronte interno come su quello estero, dagli Stati Uniti. Dichiarare “urbi et orbi” che il Paese celebrato come faro delle libertà ha violato sistematicamente quelle dei propri cittadini trasforma automaticamente l’autore in una semplice “spia” o in un traditore al soldo del nemico. Insomma, nessuna eroica visibilità, ma un più prosaico mandato di cattura. Quando ancora la giovane “talpa” della Nsa si trovava ad Hong Kong nella Cina Popolare, circondato dal sostegno di gran parte dell’opinione pubblica locale, il Global Times, in uno dei tanti editoriali dedicati al caso, aveva proposto ai propri lettori le riflessioni di uno studente canadese(riprese successivamente anche dal Los Angeles Times in un articolo dedicato alla solidarietà dimostrata dai cinesi): “Immaginate una situazione ribaltata, con un cittadino cinese che ripari negli Stati Uniti con prove documentate su una vasto operazione di cyber-sorveglianza come quella rivelata da Snowden. In tale circostanza, il governo Usa avrebbe rinviato in Cina questa persona? E’ praticamente certo che gli sarebbe stato concesso lo status di rifugiato politico”1.
Più semplicemente ci saremmo trovati di fronte al nuovo celebrato dissidente (non certo una “spia”o un “traditore”) che avrebbe nuovamente mostrato al mondo gli orrori del totalitarismo cinese.
E proprio dei tanto celebrati dissidenti cinesi noi vogliamo parlare in questo articolo, mentre Snowden è ancora in attesa di conoscere il suo destino. Ne vogliamo parlare proprio ora perché il loro silenzio (o parziale silenzio) di fronte a questa palese violazione della libertà individuale ci pare strano.
Partiamo dal più celebrato, quel Liu Xiaobo insignito nel 2010 del premio Nobel per la pace nonostante la sua aperta riabilitazione del colonialismo e dell’imperialismo portati avanti da un vero e proprio cartello di tutte le grandi potenze (Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti, Italia, Russia zarista e Giappone) che per un secolo intero ha umiliato e sterminato il popolo cinese attraverso il commercio dell’oppio, la politica delle cannoniere, le spedizioni punitive e la costituzione di sfere di influenza. In una intervista del 1988 comparsa sul “South China Morning Post”, il futuro campione dei diritti umani, celebrato in occidente a destra come a sinistra, è passato sopra la più che secolare sofferenza del proprio popolo dichiarando che “ci vorrebbero 300 anni di colonialismo” perché “in 100 anni di colonialismo, Hong Kong è diventato quello che vediamo oggi”. Dunque “Vista la grandezza della Cina, certamente ci vorrebbero 300 anni perché una colonia sia in grado di trasformarsi come la Hong Kong di oggi”. Ma non è poi così sicuro che tale cura possa essere sufficiente: “Dubito che 300 anni siano abbastanza”2.
Immaginiamo il suo fastidio nel vedere la parte maggioritaria della Hong Kong, ritornata alla madrepatria, celebrare in consonanza con il resto della Cina, il giovane Snowden come eroe della libertà e chiedere alle autorità di concedere asilo politico o, almeno, di rifiutare ogni richiesta di estradizione da parte statunitense.
Ad intervenire, a modo suo, sull’affare Prism è stato invece l’architetto Ai Weiwei che, ultimamente, ha oscurato la fama del primo. La sua denuncia del programma di cyber-sorveglianza del governo Usa è stato netto: ad essere violate sono state la privacy e le libertà individuali. Ma non è tutto. Prism è pericoloso per un altro motivo: sì, questo “Moloch” tecnologicamente avanzato potrebbe stimolare le autorità della Cina popolare a metterne in atto uno simile e stringere ancora di più il controllo totalitario sui cittadini. Che la Cina – e suoi stessi cittadini – sia proprio tra le vittime dello spionaggio Usa pare importare poco di fronte alla possibilità che i “copioni” dagli occhi a mandorla possano andare a lezione di totalitarismo dalla potenza democratica numero 13. Per l’architetto dissidente la Cina in futuro sarà comunque colpevole. Se Washington lo è in “atto”, Pechino lo è in “potenza”. Che i dirigenti del Pcc si mettano l’anima in pace e producano le necessarie scuse preventive.
Non è tutto. Al nostro dissidente non piace neppure che i suoi compatrioti difendano, in accordo con il governo, gli interessi del proprio Paese. Ai suoi occhi le manifestazioni popolari che si sono scatenate in tutta la Cina (ma anche tra la diaspora cinese in tutti i continenti) per protesta contro la “nazionalizzazione” giapponese delle isole Diaoyu, non sarebbero altro che una operazione ben coordinata dal Partito comunista per il quale i cittadini sono degli “ingenui”. L’invito agli occidentali è chiaro: ingenui siete pure voi se credete che queste manifestazioni siano spontanee! L’unica vera manifestazione popolare è stata quella di Piazza Tiananmen nel 1989. Messaggio chiaro: ai cinesi è vietato difendere la propria patria se questa è governata da un Partito comunista. E che dire della sua reazione al conferimento del Nobel per la letteratura al connazionale Mo Yan (testardamente iscritto al Pcc)? Quel premio si configura come “un insulto all’umanità e alla letteratura” e una scelta vergognosa che “non è all’altezza della qualità del premio negli anni precedenti”.
Passiamo ora a Chen Guangcheng, l’avvocato dissidente che l’anno scorso era fuggito dagli arresti domiciliari per riparare nell’ambasciata Usa a Pechino prima di lasciare il Paese in seguito ad un accordo tra i due governi. A metà giugno la New York University, che lo aveva accolto per fargli proseguire gli studi giuridici, aveva annunciato la fine della sua borsa di studio (assai onerosa, come hanno dichiarato le stesse autorità universitarie). Ebbene, qual’è stata la reazione del nostro eroe della libertà? Semplicemente quella di accusare l’università stessa di essere sotto il ricatto dei comunisti cinesi i quali, ai suoi occhi, si sono abilmente infiltrati nei circoli accademici statunitensi proiettando una oscura minaccia totalitaria. Toni da “guerra fredda” e da “caccia alle streghe” che ricordano quelli di un Truman in piena forma: “Ci sono oggi in America molti comunisti. Sono dappertutto. Nelle fabbriche, negli uffici, nelle macellerie, negli incroci, nel mondo degli affari. E ognuno di essi porta in sé, in germe, la morte della nostra società”4.
Non è tutto: la minaccia comunista si mostra ancora più pericolosa nei confronti di Taiwan, la “provincia ribelle” in cui riparò nel 1949 il Kuomintang sconfitto dall’esercito rosso maoista. Qui è arrivato Chen Guangcheng per mettere in guardia le autorità locali dall’abbraccio mortale con la Pechino popolare ricorrendo ad argomentazioni da anni ’50 o da guerra di Corea: “il governo comunista cinese è illegittimo per natura”. Poco ci manca all’aperto invito alla liberazione della Cina continentale occupata dai “rossi”. Ma non è tutto. Il dissidente è infastidito dai legami economici e culturali sempre più stretti tra le due sponde e allora eccolo proclamare – in linea con quanto affermato a proposito dell’università di New York – che il presidente nazionalista Ma Ying-jeou non è libero perché “tenuto sotto pressione” da Pechino e che è pericoloso approfondire i legami con quest’ultima: “Se Taiwan non può portare la democrazia e la libertà in Cina, l’autoritarismo della Cina si diffonderà a Taiwan… se Taiwan o il mondo libero non sono fermi sui propri principi si faranno del male”.5
NOTE
1 Beijing has right to offer Snowden political asylum, Global Times, 24 giugno 2013
2 Liu Xiaobo, The “Dark Horse” of Literature, Open Magazine, 27 novembre 1988.
3 Vast US surveillance could encourage China: Ai Weiwei, The Economic Times, 12 giugno 2013
4 China Dissident Says He’s Being Forced From N.Y.U., New York Times, 16 giugno 2013
5 Blind activist urges Taiwan to stand up to China, www.foxnews.com, 24 giugno 2013