Probabilmente Giorgio Napolitano pensava di poterselo risparmiare, il ritorno di Bertinotti. E invece no. Qualche giorno fa lo ha dovuto fronteggiare sulle prime pagine dei giornali, e si è dovuto addirittura difendere. Proprio lui, che ha ci ha offerto in dono la sua vecchiaia, caricandosi personalmente sulle stanche spalle la situazione emergenziale del paese, mentre – immagino – Bertinotti deviava sulle Maldive la rotta verso Cuba.
Sì, perché Giorgio Napolitano, l’uomo che ha goduto forse della più sincera fiducia popolare nella Repubblica, si trova oggi moralmente sotto accusa, e il capo di imputazione non è dei meno gravi. Abuso: di potere, posizione, eminenza istituzionale. Questo, in sostanza, afferma la sfilza di “Lei non può” dell’ex presidente della Camera; un’accusa che il Presidente respinge con estrema fermezza, rinfacciando a Bertinotti stesso le gravi responsabilità nella situazione attuale. Lui, Giorgio Napolitano, questo paese lo sta al contrario difendendo quasi col suo corpo, garantendone in primo luogo la stabilità, la governabilità e la credibilità internazionale. Così rivendica, così scrive. E non potremmo dubitarne.
Tuttavia ciò non sembra sufficiente per esser sollevati da ogni responsabilità.
In questo paese privo di padri – ma affollato, purtroppo, di padroni – il Presidente è chiamato al ruolo più difficile: quello di educare, responsabilizzare, rendere adulta la vita politica vigilando sulle regole. Al contrario Giorgio Napolitano, per troppo amore nei confronti della nazione, si è progressivamente trasformato nel suo diseducatore.
L’Italia era, e purtroppo è, una nazione che ha preso la strada del declino. Ma forse proprio in questo – come da una lunga tradizione – avrebbe avuto occasione per riscoprire la sua profonda identità, le sue vere risorse, i suoi grandi talenti. Eredi di una forsennata era economica e sociale, irretiti in una trama di false verità, chiedevamo una paternità – quale al principio sembrava essere quella di Monti – che mettesse a nudo il reale, che reimmettesse verità nel linguaggio della politica, e non una precaria stabilità che celasse il fallimento dei potenti.
Se infatti le dimissioni di Berlusconi avevano lasciato l’Italia in acque che solo un governo tecnico avrebbe potuto navigare, quelle di Monti – che fino ad allora si era posto in antitesi alle prassi partitiche – sembravano aver scatenato un’auto-decostruzione della classe dirigente, un movimento di verità che ne avrebbe messo a nudo le ottuse e ottundenti logiche, una prova conclusiva e inoppugnabile della sua inadeguatezza. E d’altra parte questo è stata la principale utilità del movimento di Grillo, e forse anche delle ambizioni di Renzi: smuovere in qualche modo le acque.
Ma qui il Presidente, come un cattivo padre, si è reso complice dei vizi del paese, piuttosto che motivarne le aspirazioni di rinnovamento. Di fronte alle convulsioni di una politica senza risorse, e alle agitazioni di un paese reale che pretendeva invece di prendere il comando, in quelle stesse drammatiche ore in cui i nomi dei suoi successori alimentavano un miserabile incendio, Napolitano si è trovato di fronte a un bivio. E accettando il reincarico ha chiaramente inteso sollevare la politica dalle sue responsabilità, confidando ancora una volta in essa.
Il Presidente, ne sono convinto, ha ritenuto così di umiliare a tal punto i suoi posteri da innescare in essi una reazione, o peggio di soggiogarli a tal punto a sé da poterne condurre dall’alto la riforma. Mossa da buon politico, ma da pessimo pedagogo. C’è un tempo, nella vita di ognuno, da dedicare alla ribellione, alla delegittimazione, alla lotta intestina di sé con sé, al rifiuto dei padri, dei nonni, degli zii; un tempo che sottende alla crescita e al cambiamento, che un buon padre non deve reprimere, ma che deve piuttosto accompagnare, stemperare, educare.
Al contrario, negando all’Italia i suoi mesi ribelli, evitando alla partitocrazia la gogna della delegittimazione, Giorgio Napolitano ha mentito ai suoi figli e concittadini. Da arbitro super partes per il bene del paese si è così trasformato in difensore delle parti politiche dal paese, snaturando il suo stesso ruolo e imponendo alla Repubblica uno sviluppo un’assetto pensati ad uso e consumo del suo presente.
Naufragato Monti nel suo stesso narcisismo, ha individuato nel prodotto di un’unione contronatura, Enrico Letta, il baricentro di un equilibrio politico artificioso e infecondo. Letta, non a caso, è il figlio che ogni padre incapace vorrebbe: educato, studioso, inappuntabile, obbidiente. Non chiede di uscire la sera e si alza da solo al mattino per andare a scuola. Proprio per questo, tuttavia, è del tutto incapace d rappresentare modo quella rabbia sociale, adolescenziale, che smembra il paese dal fondo, che desidera abbattare le statue e le insegne, che al più presto vuole declinare ogni presente al passato. Così il buon Letta, sotto gli occhi di tutti, non fa che svolgere il ruolo di un chiavistello, con il quale si serrano e proteggono ulteriormente dal paese quelle stesse stanze nelle quali la decomposizione del potere e – aggiungo – della società civile prosegue indisturbata. Un sasso sotto il quale brulica, ora protetto dalla ragion di stato, il verminaio dei giochi di potere, delle riforme mancate, delle promesse tradite.
La verità, quella che Napolitano avrebbe potuto raccontare, è che l’Italia è un paese culturalmente anarchico, che non può essere davvero governato finché non sceglierà liberamente e consapevolmente di lasciarsi governare, e di darsi una struttura a questo scopo. Ma per questo ha bisogno di tempo e, chissà, di rompersi la testa da qualche parte, imparare ad imparare dai suoi errori. Troppe sono le circostanze storiche e sociali che ce ne convincono, e che certo né il Presidente né Letta riusciranno a scavalcare o forzare.
Sarebbe stata forse la volta buona per comprenderlo? Non lo possiamo dire. Ma la difesa della nazione da questa verità è senz’altro la grande colpa del cattivo padre Napolitano, la cui solitudine al vertice non pare quella di un uomo al comando – o, come spesso si dice, a quella di un Re – bensì quella di chi ha devoluto e destituito il suo unico potere, affermare e ribadire la verità, in cambio della falsa quiete dei suoi figli. E in gran segreto tiene stretta nel suo cuore l’anarchia profonda dell’Italia.
Simone Guidi
@twsguidi