Ore 18,49 da un nuovo mondo. Danilo è un imprenditore italiano: ha 62 anni. Conosce il Brasile e le dinamiche del mercato da una trentina d’anni. Ha pensato di impiantare la sua attività qui solo da tre anni e mezzo a questa parte. In Italia non ha trovato più appigli. “La crisi morde troppo in Europa, il peggio non è ancora arrivato”, mi ha raccontato a pranzo in un ristorante vicino ad Avenida Paulista. A farci compagnia fuori c’era un sole tiepido che ha regalato a questo inverno un sapore di strana estate.
E anche le sue parole hanno finito per non avere quel retrogusto amaro, a cui ci hanno abituato tante storie di imprenditorialità recluse nei confini domestici. Ma attenzione a farsi allettare dalle conclusioni scontate. Qui in Brasile Danilo non ha trovato nessun Eldorado. Ha lottato, investendo in prima persona, per farsi spazio in un mercato dove la mentalità non è quella di casa.
Ha messo radici in un momento in cui il Paese carioca già faceva intravedere qualche crepa. “Ma almeno – riprende serio – ho seminato in questa parte del mondo che mi permette di tenere a galla l’azienda anche in Italia”. I semilavorati vengono prodotti ancora dagli operai italiani. In Brasile c’è il resto: l’assemblaggio.
Danilo ha riscritto in questo modo la regole di una attività a cui ha dedicato la vita. Lo ha fatto in nome di un’internazionalizzazione che rappresenta forse l’unica strada percorribile per chi crede ancora nella capacità di fare impresa. Lo Stato di San Paolo è quello più ricco in termini di Pil, alle spalle si colloca Rio e poi seguono tutti gli altri. Se solo i dazi che arrivano al 100%, a cui va aggiunta poi la tassa per vendere i prodotti – intorno al 49% – non fossero così alti, fare impresa qui non sarebbe poi così male.
Non a caso, qualche economista prevede che la calma apparente – al di là della rivoluzione dell’aceto – che ha scosso il Brasile prima e durante il mondialino di quest’estate durerà almeno quattro-cinque anni. Poi sarà crisi. Guilherme Loureiro di Barclays segnala che la spirale inflattiva, la spina nel fianco del Paese per molti decenni, non desta grosse preoccupazioni. Ma da qui a tirare il fiato ce n’è passa.
Viene da chiedersi se dopo il via libera dal prossimo settembre all’arrivo di medici stranieri in Brasile, per far fronte ad una cronica carenza nelle zone più remote del Paese, come scritto oggi dal quotidiano Estado de Sao Paulo, e la riduzione del 70% dei prezzi dei trasporti pubblici, anche l’economia verde oro non abbandonerà prima o poi il suo storico protezionismo.
D’altra parte in Europa la storia sta riscrivendo se stessa: da terra di conquistadores i giovani europei salpano in cerca di opportunità nelle vecchie colonie. Se la crisi globale farà tappa fra qualche anno in Brasile, anche qui potrebbe succedere l’impensabile.
Twitter: @Micaela Osella