Panda MomsLa semplicità di un “Chi sono io”

Io mi ricordo il sapore di quel karkadé. E il colore, che si vedeva da lontano. Tanti piccoli bicchieri di vetro con quel liquido rosso-rosa dentro. Zuccherato, ma non troppo, perché eravamo tutti...

Io mi ricordo il sapore di quel karkadé. E il colore, che si vedeva da lontano. Tanti piccoli bicchieri di vetro con quel liquido rosso-rosa dentro. Zuccherato, ma non troppo, perché eravamo tutti bambini, e non dovevamo bere troppe bibite dolci. Freddo, ma non troppo, perché faceva caldissimo, troppo caldo per bere qualcosa di ghiacciato.

Arrivavamo da una giornata intera al mare, e da una camminata di 7 km, uno dietro l’altro. Ragazzini di 10, 11 e 12 anni. Femmine e maschi, tutti attenti a non “lasciare buchi” nelle file. Tutti con il cappellino in testa e la borraccia a tracolla.

Le ossa indolenzite, la pelle arrossata, e la sensazione di felicità che ti regala una giornata stancante passata a sorridere. Quei minuti passati fra le docce, le tende e la tettoia sotto alla quale cenavamo. Prima, una preghiera, tutti insieme, cantando. Poi l’insalata di riso, immancabile, il secondo, e poi la serata, in mezzo ai grilli e alle chitarre.

Io mi ricordo il colore del fuoco acceso sulla spiaggia a Sabaudia, qualche anno dopo. Tutti seduti a recitare il Piccolo Principe, e a cantare. I piccoli lapilli che si staccavano e andavano su, verso il cielo, e sembravano diventare stelle. E la consapevolezza di essere dentro a qualcosa di unico e irripetibile, qualche ora più tardi, chiusa nel mio sacco a pelo, con gli occhi rivolti verso l’alto. I miei sogni di 15enne che mi portavano lontano da quel mondo fatto di amicizia e preghiere, misti alla consapevolezza che quel mondo mi avrebbe aiutata a viaggiare tranquilla. Protetta.

«Non si può dormire in spiaggia, quindi domattina mettiamo in ordine tutto verso le 5, e alle 6 dobbiamo essere già in strada». E di nuovo, tutti in fila, addormentati ma eccitati dalla notte speciale e dalle risate soffocate nel silenzio.

Io mi ricordo le messe celebrate dove capitava: in spiaggia, in un cortile, persino nella terrazza di una discoteca abbandonata, accanto al mare. E il non avere regole rigide, se non quella di amare quel Dio così buono, come potevamo e come riuscivamo. Quel Dio che ci veniva presentato come simpatico, paziente, generoso. Quel Dio che parlava semplice, e ci voleva bene come una mamma o come un papà. Quel Dio che, come una mamma o come un papà, sapeva accettare anche le nostre debolezze.

Eravamo tanti, tantissimi. Dai 6 anni in poi, ogni sabato pomeriggio riempivamo la parrocchia con le nostre urla e la nostra voglia di vivere.

E con noi c’era sempre lui. Il Parroco che aveva costruito quella Chiesa, che ci amava uno ad uno come dei figli, e ci insegnava una Parola semplice, immediata, diretta. Un uomo che sapeva raccontare la vita di un Dio buono, e che faceva venire voglia di saperne di più. Di conoscere, di chiedere. E di credere.

Saper comunicare non è un peccato, ma un grandissimo dono. La semplicità di un “Chi sono io”, che riporta l’attenzione sull’amore, sul rispetto e sull’attenzione verso il prossimo. La semplicità di un Papa che sa sorridere, e che chiede aiuto. La semplicità di una storia che in realtà è sempre stata semplice. E che fa venire voglia di tornare a credere.

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