Una volta trovato (e questo potrebbe portare via un paio d’ore) il Moca, o Museo d’Arte Contemporanea di Bangkok, vale una visita. Sei piani di bianco abbagliante, silenzio, dentro questo fortino che isola dall’arteria di traffico che gli corre di fianco. Servito da scale mobili e personale sorridente, dà l’impressione del vuoto, per i pochi visitatori e per i soffitti alti. Le opere esposte contrastano con l’omogeneità asettica delle sale: immagini schizzate e coloratissime. Immagini che mi colpiscono per il loro quasi costante richiamo alla religione buddista, alle sue forme e alle sue simbologie.
Darkenss e Lady di Weerasak Sassadee sono magnetiche. (http://www.mocabangkok.com/museum/web/en/art_the_collection.htm#)
È difficile immaginare la calca di una metropolitana inchiodarsi sul posto. Succede a Bangkok. Alle otto di mattina, alle sei di sera. Quando gli altoparlanti di edifici pubblici, parchi, stazioni, metrò e treno volante intonano all’unisono le note di Pheng Chat, l’inno nazionale thailandese. È bizzarro da vedere, in particolare chi resta in posa, tessera alla mano, di fronte le barriere d’uscita. Non esce. Aspetta lo scadere di quei trenta secondi di sospensione. Poi ricomincia tutto come prima, frenetico e disordinato.
Resta l’effetto di una città immobile, impensabile.
Chinatown, di notte, è un bordello di caldo e roba da mangiare. A 40 bath, 1 euro, ci prendi zuppe, riso fritto e pad thai (noodles thailandesi saltati con uova, salsa di pesce, succo di tamarindo, peperoncino, più varie combinazioni di germogli di soia, gamberetti, pollo o tofu, guarniti con arachidi sbriciolate e coriandolo). Ci trovi pesce alla grigia o al curry e cesti di ghiaccio e birre Chang. Questo e altro. Perché a Bangkok, sulla strada, si mangia dappertutto, e a guardare bene ci scovi anche l’esotico estremo: piccoli scorpioni fritti da sgranocchiare come noccioline.