Bangkok è la capitale dei tatuaggi. Li portano anche gli anziani addormentati sui loro sdrai, a torso nudo, nei soi. I budelli laterali, lì dove si soffoca quando il sole batte sulla strada. C’è chi ha tutta la schiena, tutto il petto pieno d’inchiostro. Quello nero e sacro dei sak yant. Disegni e formule magiche che i monaci battono in fretta con un lungo ago di metallo. E quando lo fanno, al Wat Bang Phra, un tempio buddista fuori Bangkok, recitano un mantra. (Per farsi una idea le cinque righe verticali sulla schiena di Angelina Jolie). E altro: animali tropicali e viluppi di parole annodati in questa lingua ininterrotta che è il thailandese.
(Non esiste una spaziatura tra una parola e la successiva, l’interruzione segue tutte altre regole, che non sono stato in grado di capire).
Wat Pho, esterno, Bangkok
L’arancione delle tuniche dei monaci è magnetico. Rasati, bambini, camminano lungo la muraglia che nasconde il Wat Pho, il tempio del Buddha sdraiato: un colosso di quarantasei metri rivestito d’oro con occhi e piedi decorati in madreperla. Si accalcano sul molo a spettare un vaporetto che se li porti via. Il rispetto che la società thailandese porta a questi religiosi l’ho letto sue due adesivi: uno nei vagoni della metropolitana, uno alla stazione centrale: “Please offer this seat to monks”.
La boxe thailandese, o muay thai è uno sport violento e stupefacente. E il Lumpinee di Bangkok l’arena dove i riflettori bruciano il ring più importante del mondo. Le tribune accompagnano ogni colpo con un ululato: l’aria è carica d’elettricità statica, di smorfie, di un inarticolato mimare di pugni. Chi combatte s’avvinghia, affonda gomitate, ginocchiate. Qui ci combattono solo i migliori. E uno di loro è un italiano di 20 anni. Mathias Gallo Cassarino, o Mathias Sitsongpeenong – questo il suo nome di combattimento ripreso secondo la tradizione da quello della prestigiosa scuola di Timothy Dharmajiva, dove si allena da un anno e mezzo. Qui l’ho incontrato, l’ho visto parlare thailandese con i suoi maestri – o ajan – incrociare i guantoni con campioni assoluti del calibro di Kem, Sittichai o Thongchai. (Dicevano meno di niente anche a me, ma una breve ricerca su internet m’è bastata).
Il Chatuchak è un mercato totale. Edizione asiatica della londinese Camden Town, è un bordello d’oggetti e di cibo. Qui si comprano con vantaggio vinili, vestiti nuovi, usati, anticaglie e preziosi. Nell’umidità irrespirabile dei suoi padiglioni si incontra anche un buono spaccato della bizzarra gioventù thailandese.
Detto questo, per me Bangkok resta una capitale di infrastrutture violente e perfette: che vista di notte dalla cinque corsie della superstrada che l’attraversa riempie bene la descrizione che ne fa Houellebecq nel suo romanzo “Piattaforma”: un imponete e vagamente spaventoso groviglio di neon e grattacieli, di vetro e cemento assemblati secondo un ordine asettico e scintillante. (Qui non ho il libro, quindi la citazione è fatta a memoria e male).