Out among the EnglishQualcosa sull’affaire Francesca Borri

È un periodo che lavoro per mettere insieme un'idea abbastanza completa riguardo alla situazione del giornalismo freelance in Italia, soprattutto tra quella marmaglia di trentenni apparentemente s...

È un periodo che lavoro per mettere insieme un’idea abbastanza completa riguardo alla situazione del giornalismo freelance in Italia, soprattutto tra quella marmaglia di trentenni apparentemente senza prospettive e senza speranza che si aggirano per il sottobosco del giornalismo culturale. Lo sanno gli amici e i colleghi che ammorbo ogni giorno, chiedendogli come se la cavano, come si trovano, come portano a casa la giornata. Non lo faccio in maniera morbosa e nemmeno per sentirmi dire «non sei l’unico, siamo tanti nella tua situazione», lo faccio perché penso sia importante sapere da dove vengono le firme che riempiono le terze pagine, le pagine web e quelle delle riviste giovani da edicola.

Ora devo fare i conti con una cosa successa qualche giorno fa, alla quale spero di aver lasciato abbastanza tempo per riposare, per due motivi: il primo è che non è mia intenzione battere sulla piaga, il secondo è che non vorrei trovarmi a dover rettificare questo articolo nel breve periodo. Credo di essermi fatto un’idea abbastanza stabile, ma se scrivendo mi accorgerò di non sapere dove sto andando, sarò costretto a fermarmi e lasciare perdere. Non si monta un’opinione sul niente e, dato che questo è il sunto fondamentale di queste righe, vorrei evitare di alimentare la macchina dei social con l’ennesima vangata di letame umido. Che poi fa fumo e col fumo si respira male e non ci si vede.

Molti si sono accorti per tempo della pubblicazione di un pezzo di Francesca Borri sulla Columbia Journalism Review, in cui parlava della – dura per carità, durissima – condizione delle giornaliste freelance nelle zone di guerra. Lo faceva con grande trasporto e quel pizzico di sacralità che alla fine della lettura ti faceva pensare «Gesù» e sentire fiero di condividere, seppur su tutt’altro livello, con lei lo stesso mestiere. C’è anche da dire che avevo – per pura combinazione – appena finito di leggere un altro pezzo, di tenore completamente opposto, comparso su IL del Sole 24 Ore, a firma di Francesco Pacifico che, pur nel suo modo brillante e lievemente gonzo, non diceva nulla, girando intorno al lido di Ostia e a burini annunciati ma non visti. Avevo bisogno di qualcosa di carnale, di un bell’articolo di giornalismo di guerra che contemporaneamente se la prendesse coi direttori negligenti così attaccati allo scoop da chiedere alla cronista rapita – e sconosciuta pare – di live-twittare il proprio sequestro, fischiasse come un proiettile di AK attorno alla testa e fosse condito di pallottole nel ginocchio e febbre tifoide, possibilmente dalle parti di Aleppo, Siria. Eccomi servito. Come molti l’ho subito condiviso entusiasticamente, senza – e qui mi batto il petto – dedicargli la lettura approfondita che meritava.

In poche ore il caso si è gonfiato, il mattino dopo ho trovato il pezzo tradotto (inizialmente era in inglese) e ripubblicato da minima & moralia – ad opera di Christian Raimo, ma senza l’apparente consenso dell’autrice – La Stampa e Il Post. Francesca orchestrava il traffico dal suo account twitter, che nel frattempo si era arricchito di circa duemila seguaci e sul quale solo fino a qualche ora prima scriveva «oggi mi sento possibilmente ancora più sola», o variazioni sul tema. Aleppo, la Siria, le pallottole. Giornalisti commossi, cronisti in rivolta, scribacchini dell’era digitale che esprimevano tutta la loro vicinanza alla collega dimenticata, pagata settanta euro al pezzo per fare lo slalom tra i missili, e tra loro nemmeno un – e dico nemmeno uno, andate a vedere – corrispondente di guerra.

Schifato dal miele mediatico riservato alla faccenda in meno di ventiquattr’ore, quando nelle settimane precedenti nessuno se n’era preoccupato, sono andato a rileggermi l’articolo e la mia percezione ha cominciato a vacillare. Tolto il completo di belligeranza che portavo la prima volta, e insinuato il seme del dubbio, a causa della latitanza dei colleghi diretti di Francesca, le domande hanno cominciato a sorgere spontanee ma, un po’ perché non conosco direttamente l’ambiente, un po’ perché non sono così ferrato sull’argomento conflitti internazionali, non me la sono sentita di esternarle. Poco male, qualche ora dopo lo ha fatto qualcun altro per me.

È naturale che, rispetto al pezzo pubblicato da Cristiano Tinazzi – corrispondente di guerra freelance, collaboratore regolare del Messaggero – sul suo blog, le mie perplessità coprissero un’area piuttosto limitata ed entrassero decisamente meno nel merito, ma tant’è. Qualcosa cominciava a puzzare, le date smettevano di combaciare e le ginocchia e i pezzi di cervello cominciavano ad assomigliare sempre di più a un trucco cinematografico di serie B, tanto che la stessa Columbia Journalism Review ha aperto un fact ckecking – non ancora risolto – riguardo la veridicità delle informazioni riportate da Francesca, la quale dal 12 Luglio, giorno di massima diffusione del suo pezzo, tace.

All’inizio sono rimasto deluso, dalla parabola stretta della neonata reporter d’assalto, da me stesso che ancora una volta mi ero lasciato coinvolgere in una crociata non mia, dalla brutalità con cui il web – e i social – riescono a elevare e abbattere le stesse argomentazioni nel giro di pochi giorni, ma poi mi sono sentito sollevato: perché in fondo c’è sempre una voce dura e sensata, come quella del saldo Tinazzi, a raffreddare i facili entusiasmi e liberare il campo per trarre qualche conclusione.

Se mi trovassi di nuovo alle prese con un pezzo come quello di Francesca lo ripubblicherei, perché comunque tocca questioni importanti, e permette una riflessione non da niente sulla professione di chi come me – anzi più di me – è costretto ad inseguire il momento. Ma prima di pubblicarlo aspetterei la voce ruvida del Cristiano Tinazzi di turno, che sistemi le carte in tavola, che completi il quadro, che porti la discussione a quel livello di realismo necessario a comprenderla davvero e che abbia il coraggio di dire che se si accettano settanta euro al pezzo per rischiare la vita in Siria, in Afghanistan, in Iraq, si mette a repentaglio la propria professionalità e quella dei colleghi, ma che sottolinei anche – tra le righe – che abbiamo tutti diritto a un trattamento migliore, con o senza bombe che ci piovono addosso, e che siamo tutti lì fuori a cercare di migliorare una situazione disperata, senza il bisogno di chiamare in causa rapimenti, ginocchia in frantumi o profughi trucidati. È il nostro mestiere ed è un mestiere privilegiato, che la maggior parte di noi ama profondamente e che tutti abbiamo scelto, e proprio per questo non deve essere svenduto.

Se Francesca Borri avesse pubblicato lo stesso articolo dichiarando di scrivere dalla sua stanza, comoda e sicura, perché non era disposta a impegnare la propria pelle in favore della parola scritta, lo avrei condiviso comunque. Solo io, magari, ma lo avrei condiviso comunque.