Chiang Mai è un baraccone accogliente. Un quadrato di mura corre tutt’intorno alla più grande città del nord della Thailandia, 200.000 abitanti, il traffico gira il perimetro a senso unico. Dentro resta disordinato. Nelle vie strette s’ammucchiano mercati diurni e notturni, agenzie di viaggio, verande a pancake, librerie di seconda mano, ostelli e templi. Templi dappertutto. Qui si chiamano Wat, e sono circa trecento, dipende dalla conta. Aguzzi e dorati, portano alle estremità di tetti sovrapposti i chofah, decorazioni che hanno la forma di uccelli a becco lungo. Sono garude stilizzate, esseri a metà tra aquila e uomo riprese dalla mitologia induista e buddhista. In Thailandia sono simbolo della famiglia reale.
In città l’umidità è spessa tutto il giorno, tutti i giorni, meglio montare al Wat Phrathat Doi Suthep, costruito nel 1383 su una collina a 15 kilometri a nord-ovest. Al tempio si accede salendo 309 gradini e allungando un corrimano sinuoso in forma di dargone. Si paga una minima tassa d’ingresso per un panorama largo, fresco, su tutta la pianura di sotto.
Immaginavo che le donne giraffa vivessero solo in Africa. Mi sbagliavo. In questa regione sono una delle maggiori attrazioni turistiche. Sono vendute come tour di due giorni già da Chiang Mai. Oppure, si può fare tutto in moto. Duecento cinquanta chilometri di saliscendi fino a Mae Hong Song, il capoluogo della provincia omonima. Terra di confine tra Thailandia e Burma, è da questo Paese che queste donne, uomini e bambini di etnia kayan – indicati sulle mappe e sui cartelli come long neck tribe – sono scappati dal conflitto che negli anni novanta li ha opposti al regime militare birmano. Hanno cercato e trovato rifugio oltre la giungla spessa che divide i due Paesi, in villaggi di legno, bambù e palme. A Ban Na Soi, durante la stagione turistica, si paga un biglietto d’entrata di 250bath per attraversare lo sterrato che taglia il villaggio. A giungo tutto è disertato. Davanti alla chiesa (la maggior parte di queste persone sono cristiane cattoliche, convertite nel XIX secolo), i ragazzi hanno improvvisato una partita di calcio. La scuola è deserta, è domenica. Su questi banchi si studia in birmano, thailandese, e inglese. Ma il problema di queste persone restano i documenti. Senza carte in regola non possono trovare lavoro in Thailandia, restano rifugiati. Sopravvivono di piccoli orti improvvisati, delle poche bestie domestiche di proprietà, di turismo. Di biglietti d’ingresso e di preziose sciarpe intrecciate e vendute dalle donne che si fanno fotografare con i loro spessi anelli al collo. Resta uno zoo di uomini, sfruttato dall’industria del turismo locale d’escursioni, d’oggettistica e souvenir che, paradossalmente, sopravvive di tutto questo.
La strada per il Laos passa per Chiang Rai, prima, Chiang Khong, poi, e un confine da attraversare su una piccola lancia a motore. Il visto per la piccola Repubblica Popolare Democratica è rosso, si ottiene in fretta arrivati in frontiera. Due moduli, una fototessera, 35 dollari per gli italiani, 30 per i francesi. Incomprensioni.