Consumiamo lo stesso volume di gas del 2002, ma il governo spinge per nuove infrastrutture d’importazione, che finanzieremo con le nostre bollette.
Dieci anni fa, tutte le grandi utility sognavano un proprio gasdotto, o un ri-gassificatore; il mercato tirava, complice il monopolio Eni; importazioni indipendenti avrebbero garantito quindi alti margini, ridotto un i prezzi e aumentato la sicurezza delle forniture.
Così, in poco tempo, numerosi progetti, di terminal di gas naturale liquefatto da ri-gassificare e di gasdotti, si sono accumulati sui tavoli dei ministeri.
Poi, la crisi e l’espansione delle fonti rinnovabili, hanno fatto crollare i consumi e un’offerta crescente ha intaccato prezzi e margini; costruire un ri-gassificatore è ora meno attraente e, viste le incertezze del recupero dell’investimento, parecchio rischioso.
Eppure il governo indica, tra le priorità, la realizzazione di nuovi terminali per navi metaniere. Illustrando al Senato il programma del suo dicastero, il ministro dello sviluppo economico ha evidenziato la necessità di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo della nostra capacità di ri-gassificazione, anche in previsione dell’arrivo del gas da scisto americano.
Previsto un decreto per la realizzazione d’infrastrutture “strategiche”, coerenti con il documento di strategia energetica nazionale (SEN), varato, in tutta fretta, dal duo Clini – Passera, sul letto di morte del governo Monti.
Perché i due ministri abbiano forzato le cose non è mai stato spiegato e non è chiaro perché i saggi di Napolitano lo abbiano subito preso per buono.
Per le infrastrutture previste dal decreto “si prevederà la possibilità di recupero garantito (anche parziale), dei costi a carico del sistema”, ossia dei consumatori, “anche in caso di non pieno utilizzo”.
Un principio che l’Italia è riuscita a far passare nella dichiarazione finale del G7: i costi di opere “necessarie per aumentare la sicurezza degli approvvigionamenti, e che non possono essere costruite secondo le regole del mercato, potrebbero essere sostenuti attraverso quadri regolatori o attraverso il finanziamento pubblico”.
Pessime notizie quindi: le bollette potrebbero coprire anche i due terzi del costo dell’investimento, anche a impianti fermi.
Il ministero stima un extra-onere annuale, di circa 150 milioni, per un terminal da otto miliardi di metri cubi, in caso di suo completo inutilizzo.
Il documento SEN ritiene necessario almeno un impianto di questa taglia, o forse due se non verrà realizzato il gasdotto Albania-Italia.
Se aggiungiamo il ri-gassificatore OLT di Livorno, al quale il ministero vorrebbe estendere il meccanismo, con una stima di 60 milioni all’anno, il conto sale a 210-360 milioni all’anno.
Sul numero d’impianti da realizzare, il ministro ha ricordato che quelli autorizzati sono tre.
L’unico da otto miliardi di metri cubi è Porto Empedocle di Enel, che potrebbe essere utilizzato per importare GNL dagli Stati Uniti, in base a un recente accordo di Endesa, ma, ottimisticamente, non prima di quattro anni.
Gli altri due sono a Gioia Tauro (dodici miliardi di metri cubi), in Calabria, il cui principale socio è Sorgenia, in odore di fallimento, e Falconara di Api, nelle Marche.
Quindi di cosa stiamo parlando? Di altre cattedrali nel deserto? Probabilmente si, perché progetti che, in base a una logica di mercato resterebbero nel cassetto, per un ritorno garantito per legge, che annulla gran parte del rischio d’impresa, tornano ad essere interessanti.
L’unico rigassificatore utile sarebbe quello sardo, visto che il Galsi – il gasdotto sardo-algerino – non si fa più, ma per ora non se ne parla.
Tra i rigassificatori esistenti, quello di Snam a Panigaglia è a riposo da oltre un anno e quello di Rovigo – Edison, Exxon e Qatargas – viaggia al minimo consentito dai contratti. Stessa sorte per l’OLT di Livorno, costato una fortuna e fermo dalla sua inaugurazione, come ha spiegato Gabanelli.
Ma allora, è proprio necessario farne di nuovi, facendoli pagare ai consumatori e allo Stato, e come può sposarsi questa scelta con la promesse di Renzi di ridurre le bollette?
“Dobbiamo scommettere che la domanda tornerà a crescere”, ha notato il ministro Guidi dopo il G7, ma scommettere con i soldi degli altri non solo e facile ma non si perde mai!
Secondo il ministero, le infrastrutture serviranno ad aumentare la sicurezza e ad “agganciare” la rivoluzione dello shale gas americano.
Ma lo shale gas americano è una rivoluzione oppure è solamente una bolla, tutta americana?
La prima mossa del nuovo AD di Eni è stata di rinegoziare subito i contratti take-or-pay con russi, spiazzando le ambizioni degli americani.
Il gas americano, se e quando arriverà, non avrebbe mercato né in Italia né in Europa: troppo alto il prezzo per le depresse quotazioni nostrane, e impossibile prevedere se, in futuro, potranno competere con quelle asiatiche.
I nostri consumi del 2013 si sono attestati intorno ai 70 miliardi di metri cubi, meno che nel 2002 e in linea con le stime di Snam per il 2023.
Il boom dell’energia rinnovabile ha ridotto drammaticamante la domanda di gas delle centrali e molte industrie hanno chiuso, o delocalizzato la produzione.
Per quanto riguarda la sicurezza degli approvvigionamenti, l’attuale capacità d’importazione annua supera del 65% i consumi e il tasso di utilizzo di tubi e ri-gassificatori è del 54%.
Altro discorso sarebbe se il governo avesse obiettivi strategici a più ampio respiro come, per esempio, convertire a metano il trasporto nazionale, ma l’esecutivo non ha mai annunciato niente di simile.
Una tragica serie d’incertezze e di contraddizioni, troppe, per ipotecare centinaia di milioni dei consumatori, senza chiedersi “cui prodest “.
Nota: numerose considerazioni tratte dall’ottimo articolo di Gionata Picchio sul Fatto Quotidiano.