Il fenomeno degli “homeless” della politica si sta facendo sempre più evidente. È l’assenza di una casa, di un riferimento ideale in cui identificarsi, cui si sente – più o meno – di appartenere e di essere rappresentati. Ne abbiamo avuto un assaggio nelle scorse settimane con le elezioni di alcune amministrazioni locali in trentino: 5 comuni non hanno neppure raggiunto il quorum dei votanti. Gli stessi sondaggi sulle prossime elezioni regionali segnalano una quota rilevante di incerti e di elettori che non paiono intenzionati ad andare a votare. Di qui le difficoltà delle proiezioni elettorali e il materializzarsi dello spettro dell’astensionismo che rende sempre più incerti gli esiti finali. Per un paese come l’Italia dove la propensione alla partecipazione elettorale è tradizionalmente elevata, assistiamo a un processo di europeizzazione. Le recenti elezioni amministrative in Francia hanno avuto un’affluenza del 50,3%, quelle politiche dell’Inghilterra il 66,1%. Livelli istituzionali diversi, ma alle stesse Europee dello scorso anno in Italia la partecipazione al voto si è fermata al 57,2%. Da tempo l’azione del votare non è considerata più un obbligo morale: solo un terzo degli italiani (34,8%, CMR – Intesa Sanpaolo per La Stampa) considera del tutto inammissibile non esercitare questo diritto. Di qui, un rapporto sempre più laico, meno strettamente ideologico nei confronti della politica e dei partiti, nonostante le rappresentazioni che i media riverberano. Tuttavia, per l’Italia si pone un problema specifico. Diversamente dagli altri paesi europei, il sistema politico e dei partiti da oltre 20 anni non ha ancora trovato una sua definizione. Da Tangentopoli in poi, abbiamo avuto diverse leggi elettorali, fra l’altro differenti secondo i livelli amministrativi. Diversi esponenti politici cambiano casacca oppure danno vita a nuove formazioni scindendosi da quelle originarie. I partiti hanno sì mutato – e ripetutamente – sigle e simboli, ma altrettanto velocemente non si può dire sia avvenuta anche una riflessione culturale sulle trasformazioni sociali ed economiche. Il risultato è, quando va bene, il diffondersi di un generale disorientamento e disillusione nell’elettorato; quando va male, un disincanto e un distacco dalla politica. La ricerca di Community Media Research affronta l’aspetto delle difficoltà nel rapporto dei cittadini verso la politica. Con esiti non scontati. Presso la popolazione prevale un sentimento post-ideologico verso i partiti. Complessivamente la maggioranza (52,6%) non individua, nell’attuale panorama politico, un soggetto (partito o movimento) cui sentirsi idealmente vicino. Per converso, solo il 17,7% si potrebbe definire un “militante”, che s’identifica pienamente in un partito. Fra questi due estremi si collocano quanti si approssimano (18,0%) a una delle formazioni politiche o evidenziano un atteggiamento negoziale, valutando di volta in volta (11,7%). Se poi si chiede non tanto l’intenzione di voto, quanto il livello di prossimità ai partiti, scopriamo che paradossalmente la prima formazione politica è il “non-partito”. Ben il 48,5%, infatti, non si sente vicino (o meno distante) ad alcuno della lunga lista di partiti oggi presenti nel’agone politico. Certo, poi alla fine contano i partecipanti effettivi. E così stimando quanti esprimono una vicinanza, si può osservare che gli italiani si sentono idealmente più vicini (si badi bene, non che voterebbero) soprattutto al PD (43,0%), mentre le altre formazioni seguono tutte a grande distanza (M5S: 18,2%; Forza Italia: 12,2%; Lega Nord: 10,8%), evidenziando così lo sfarinamento delle formazioni oggi all’opposizione. Pur tuttavia, anche in questo modo, la quota degli “homeless” della politica restano più elevati. La conseguenza è che, se ipoteticamente ci fossero le elezioni nazionali nelle prossime settimane, andrebbe a votare poco più della metà degli aventi diritto (57,3%). I motivi per cui non si recherebbero alle urne possono essere raggruppati lungo tre motivazioni. In primo luogo, la percezione della distanza del ceto politico dai problemi reali della popolazione (37,4%). In secondo, il senso di frustrazione derivante dal fatto che, nonostante si voti, non si vedono poi reali cambiamenti (27,5%). In terzo luogo, un disamore radicale nei confronti dei partiti (15,2%). Tutto ciò, osservando anche i talk show di informazione, alimenta nell’immaginario collettivo un crescente sentimento di anti-politica. Tuttavia, non è proprio così, anzi. Da un lato, emerge una domanda di politica nuova, in grado di aggiornare i propri riferimenti culturali e di analisi. Il 75,0% degli interpellati ritiene che le tradizionali categorie politiche (destra/centro/sinistra) oggi abbiano perso significato, non siano più in grado di leggere correttamente la realtà. E, quindi, di indicare prospettive coerenti con le trasformazioni. Inoltre, più che avere dei politici di professione, servono politici in grado di svolgere bene la professione del politico. Di qui, la consapevolezza che sia necessaria una formazione specifica per intraprendere tale ruolo (71,6%). Inoltre, è la stessa forma partito a essere messa in discussione (55,4%). Dall’altro, trova spazio anche una forma di autocritica. C’è la consapevolezza che il livello scadente della politica nazionale sia responsabilità anche dei cittadini (69,9%) e che, in fondo, i politici siano lo specchio del paese (51,9%). Non c’è, dunque, soltanto un additare la colpa ai politici, una denuncia verso la casta o la disillusione. C’è anche assunzione di responsabilità, autocritica. C’è una domanda di nuova politica che necessita nuovi edifici culturali e forme organizzative. Così facendo sarà possibile dare una casa anche agli “homeless” della politica.
25 Maggio 2015