Sull’argomento di questa nota, oggi una conversazione più ampia su Radio Radicale al link http://www.radioradicale.it/scheda/496770/intervista-a-stefano-rolando-su-web-post-verita-pannella-e-diritto-alla-conoscenza
La parola che a terzo millennio avviato sta cominciando a riformare dizionari e linguaggi politici e mediatici, pare incredibile dirlo, è la parola “verità”.
Abbiamo cominciato – nei tre anni del liceo classico post-ginnasiale – a misurarci con questa parola scandita da filosofi greci della stazza di Parmenide, Aristotele, Platone. E poi via, via, da Sant’Agostino a Cartesio, da Kant a Popper. E poi lo stesso ‘900 ci ha misurato drammaticamente con una parola che ha diviso il mondo in guerre ideologiche e guerre atomiche. Una divisione in cui si sono fatte molte sperimentazioni, anche spericolate (il mondo comunista e quello cattolico hanno per esempio operato anche all’interno della cultura della “doppia verità”).
A buoni conti, a poco a poco la fine del secolo ci ha fatto accettare l’idea di un approccio con questo concetto né con l’accetta né con il randello. Abbiamo pensato di poterci ricondurre a regole in cui sia nel campo della conoscenza sia nel campo del dibattito pubblico (politico, culturale, scientifico, commerciale) i principi di legalità e di costituzionalità dei nostri sistemi democratici ci avrebbero fornito le condizioni per battaglie a difesa almeno di un principio di “verità relativa”.
Sono gli ultimi venti anni a mettere a soqquadro, nel mondo, questo approccio morbido e relativistico.
Complici gli aspetti più ruvidi della globalizzazione, ma soprattutto complice internet, pur nella sua rivoluzionaria potenzialità. Già, perché l’ web ha accelerato l’ampliamento immenso delle fonti creando un oceano di messaggi disponibili in cui una certa deontologia risultava – come risulta – applicabile solo in pochi cespugli. Un oceano senza barriere e senza confini in cui le regole sono lasche e i controlli sono solo a maglie larghe. Soprattutto un’idea di “internet come ambiente” (non strumento, non mezzo) che per propria natura determina lo sconfinamento dell’informazione nella comunicazione. E quindi la comunicazione come setting in cui i nodi suggestivi ed emotivi sono più rilevanti della razionalità della corrispondenza al vero e al falso in cui il sistema (ove competitivo) dell’informazione si muove.
E in questa cornice che la politica ha smesso troppe volte di essere organizzazione di studio, applicazione alla cultura delle regole, formazione di classe dirigente competente. Per diventare soprattutto gestione di processi di visibilità e di marketing in cui – come nella pubblicità commerciale – la verità non è nemmeno un connotato della domanda, perché è la domanda stessa che accetta la suggestione come principio di intrattenimento.
E’ in questa cornice che una narrativa fantasiosa può avere più seguaci di un resoconto impopolare e responsabilizzante. Come ricorda Anna Maria Testa in un bell’articolo recente dedicato alla post-verità [1] è in questa cornice che Donald Trump vince (non sul voto popolare, ma grazie alle regole della legge elettorale USA) presentandosi alla rete gridando che per gli USA è intollerabile avere il 49% di disoccupati, quando i disoccupati sono il 5%; o che lui eletto farà risparmiare 300 miliardi all’anno sul Medicare quando tutto il sistema sanitario costa 78 miliardi. Parliamo di Trump, ma sappiamo che il fenomeno è su scala globale e che ha già abbondantemente investito il nostro paese con vicende che sono nelle prime pagine in questi giorni (la giuria popolare che punisce la bufale dei media, proposta da Grillo, ultima della serie[2]).
Un sistema pubblico – attraverso le sue istituzioni – ha più profili per affrontare e arginare le conseguenze di questa commistione tra politica e media centrata su importanti aspetti di falsificazione della verità, presupponendo che sia più matura la condizione di una condivisione con le componenti sociali e imprenditoriali fin qui riluttanti (l’impresa perché resistente a regolare un processo economicamente in prima fase di espansione; i soggetti sociali perché esitanti di fronte al rischio di riduzione della privacy).
Impossibile qui trattare questi profili provando tuttavia almeno ad elencarli.
· Le forze politiche stesse rappresentate in Parlamento potrebbero varare legislativamente alcune regole di comportamento della comunicazione politica ed elettorale, così come hanno regolamentato pubblicità e par condicio, oggi materie sostanzialmente anacronistiche).
· Le imprese delle comunicazioni potrebbero immaginare una fase di sostanziale consolidamento delle testate giornalistiche on line, che trasferendo fonti giornalisticamente organizzate nella produzione di contenuti in rete aumenterebbero l’autocontrollo professionale della qualità della messaggistica rispetto alla immensa frammentazione informativa costituita dai social media entro cui si annidano innocenza, opportunità e manipolazione.
Ma soprattutto le istituzioni potrebbero agire almeno su tre piste parallele.
· La rivalutazione del ruolo e della missione comunicativa della statistica, per ancorare il dibattito pubblico sui dati a fonti più accessibili e più diffuse, arginando anche una delle deformazioni in atto che vede il privilegio immenso da parte dei media al trattamento dei dati non attraverso la qualità statistica ma attraverso la spettacolarità dei sondaggi (verità contro percezione).
· Un profondo ripensamento del ruolo e della funzione della comunicazione pubblica non solo come fonte puntuale di servizio al cittadino ma anche come strumento di accesso al trattamento di conoscenza e dati in un chiave di equilibrio con gestione e responsabilità pubblica condivisa con il sistema universitario e della ricerca.
· Un orientamento al ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo all’interno delle funzioni crossmediali idonee a sostenere l’accessibilità pubblica alla qualità informativa diffusa, concependo questo profilo come quello essenziale della concessione del “cahier de charges” e non sui paradigmi tradizionali di una missione cambiata in un mondo cambiato.
Sul trattamento di questi specifici punti , mi riprometto di tornare sull’argomento. Segnalando soltanto che in questo momento storico, in Italia e tra i governanti europei, se c’è qualcuno che ha doti e competenze personali per fare qualche passo su questa reale emergenza questo è il premier italiano Paolo Gentiloni.
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L’autore insegna Politiche pubbliche per le comunicazioni e Teoria e tecniche della comunicazione pubblica all’Università IULM di Milano. E’ componente del Co.re.com della Lombardia, organo di controllo e garanzia regionale in materia di comunicazioni.
[1] Anna Maria Testa, Vivere ai tempi della post-verità, L’internazionale, 22.11.2016.
[2] Stefano Folli fa oggi una rapida perfetta analisi di questa proposta (L’oppositore solo, Repubblica, 5 gennaio 2016) sia per delegittimare le fonti di nuovi rischi informativi sul Campidoglio, sia per produrre attorno allo sdegnato rifiuto un avvicinamento degli altri due poli politici del sistema tripolare italiano conferendo a M5S il ruolo di “solo oppositore”.