Per le riflessioni di contesto che riguardano anche la condizione attuale della politica italiana, propongo qui la parte saliente dell’intervento predisposto per il convegno dedicato oggi nella Sala del Consiglio Comunale di Cerignola a Giuseppe Di Vittorio in occasione dei 60 della sua scomparsa e a chiusura di una ampio programma nazionale riguardante i 70 anni della nascita della Repubblica che mi è stato chiesto come presidente della Fondazione “Francesco Nitti”, con sede a Melfi (città a 40 chilometri da Cerignola, divise dai confini tra Basilicata e Puglia).
Stefano Rolando[1]
Questa giornata coglie due ricorrenze diverse e connesse e che – proprio in tema di connessioni – ha fatto immaginare che, nella mia qualità di presidente della Fondazione “Francesco Saverio Nitti”, io avessi qualche altro contributo da dare. I “nessi” sono importanti soprattutto quando non si riscrive la storia in modo unidirezionale, ma si cerca di ricordare le grandi personalità politiche del nostro ‘900 per quello che sono state: combattenti, con il senso della patria, dialoganti, diverse, responsabili. Quanto vorremmo che la nostra classe politica fosse almeno per uno spicchio più combattente (in senso intellettuale e morale), più patriottica (nel senso degli interessi generali), più dialogante (cioè capace di parlare con convergenti e divergenti), diversa (cioè anche migliore della società) e certamente più responsabile (cioè devoluta a riformare le cose e quindi a disporre di tempo e non a vivere solo nell’hic et nunc).
E’ ancora oggi importante – pur dopo la data canonica – parlare di 70° della Repubblica, perché attorno ai nodi costituzionali della res publica c’è retorica ma poco dibattito pubblico. E’ certamente oggi prezioso riportare alla memoria degli italiani una figura come quella di Giuseppe Di Vittorio, per tre ragioni: perché c’è stata una stagione della storia politica nazionale in cui il Paese è stato grato e riconoscente ai sindacalisti; perché le ragioni del meridionalismo nella difesa del mondo del lavoro non sono venute meno, ma sono evolute dentro perduranti crisi occupazionali e nuove complessità sociali; perché la storia di chi ha vissuto in vicende divisive (per ideologia, per spartizione del mondo, per crisi di legislazione, per barriere culturali) vanno rilette guardando alle speranze che sapevano far crescere e all’umanità che sapevano coltivare.
Tra i suoi concittadini, tra i relatori di oggi e gli autori del libro che si presenta ora a Cerignola (Giorgio Benvenuto, già leader sindacale italiano e oggi presidente della Fondazione Nenni; e Claudio Marotti) lo scandaglio della figura dell’on. Di Vittorio è certamente più acuto, più consono e più competente rispetto a quanto potrei dire io.
Vado allora subito ai nessi che riguardano le figure che mi è stato chiesto di riavvicinare simbolicamente, quella di Giuseppe Di Vittorio e quella di Francesco Saverio Nitti, nella chiave che questo stesso convegno propone, quella della battaglia per la modernizzazione dell’Italia, per la lotta contro il fascismo, per la costruzione morale e materiale dell’Italia libera e per le istituzioni politiche e sociali dell’Italia repubblicana.
Innanzi tutto il territorio. Come ben sanno i presenti tra Cerignola e Melfi le differenze morfologiche ci sono ma sono dovute a tanti dettagli, non alla sostanza territoriale. 42 chilometri, che si percorrono oggi in 38’ in macchina e qualche centinaio di anni fa in 8 ore a piedi, lasciandosi alle spalle il Lago Cacciapuoti. Tra Di Vittorio e Nitti scorre una generazione, per l’esattezza 24 anni. Nitti nasce a Melfi nel 1868, Di Vittorio a Cerignola nel 1892. Ma al termine della loro esistenza le distanze si saranno raccorciate di vent’anni: Nitti se ne andrà a vita compiuta nel 1953, Di Vittorio prematuramente nel 1957.
Di Vittorio era figlio di braccianti, orfano di padre a 8 anni, nei campi da bambino e in sostanza autodidatta. Nitti era figlio di una contadina e di un professore di matematica, con tradizioni paterne nelle storie repubblicane e garibaldine, in realtà ormai in un contesto famigliare povero (la sua casa natale a Melfi lo mostra ancora) ma con un talento per gli studi che lo porteranno a brillanti esiti scolastici e universitari, a una dote alta per la scrittura scientifica e saggistica, giovanissimo alla cattedra di Scienze delle finanze.
Nel 1914 Di Vittorio – verso una formazione socialista – si sta avviando al sindacalismo bracciantile nel suo territorio, Nitti, esponente del Partito Radicale di allora, diventa ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio. Nel 1919 Nitti sarà capo – in una anno di altissime complessità nazionali e internazionali – del Governo e Di Vittorio sarà segretario della Camera del Lavoro di Cerignola.
Presi fino a qui i punti di partenza segnalano nessi, ma nessi fragili. Anzi quasi polarità diverse, pur accomunate in un sistema territoriale e sociale. Ma l’imminente arrivo del fascismo cambia le carte in tavola a tutta la classe dirigente italiana. Nel 1921 Nitti ha lasciato la guida del governo e in conflitto sia con Giolitti che con l’insorgente nazionalismo prepara la sua grande avventura intellettuale di ragionare sulla democrazia e sull’Europa sulla base delle esperienze acquisite. Di Vittorio diventa deputato nelle file del Partito Socialista (passerà al PCI nel 1924). Il fascismo non agisce con allusioni con i dirigenti politici avversari che lo criticano. Di Vittorio è condannato a 12 anni di carcere. A Nitti – pur nella notorietà internazionale della sua figura – sfasciano la casa ai Prati a Roma. Il primo scappa in Francia. Il secondo emigra prima in Svizzera e poi a Parigi. E Parigi sarà per entrambi un luogo di un crocevia dell’antifascismo che attraverseranno con le loro diverse responsabilità. Di Vittorio in rappresentanza della CGL, Nitti come un vero riferimento delle figure più significative di varie parti politiche che convergeranno spesso nella sua casa di rue Vavin: Nenni, Sturzo, Treves, Turati, Tarchiani, e molti altri. Passerà Pertini con lettera di presentazione a Turati e sceglierà però presto di scendere a Nizza per essere più vicino alla linea di iniziativa sul territorio italiano. Ci saranno i comunisti (come Maurizio Valenzi) che si appoggeranno all’iniziativa giornalistica che Di Vittorio dirigerà con la “Voce degli Italiani”, dopo avere fatto due anni in URSS ed essere stato in prima linea nella guerra di Spagna.
A Parigi nel ’41 Di Vittorio viene arrestato dai tedeschi e imprigionato alla Santè insieme a Bruno Buozzi. A Parigi nel ’43 Nitti viene arrestato dai tedeschi e deportato in Austria. Il primo finirà in Germania e poi in Italia dove i fascisti lo confineranno a Ventotene. Il secondo fu liberato dalle forze armate francesi in anni di tragedia per la storie dei suoi figli.
Nel ’45 Di Vittorio è segretario generale della CGL e nel ’46 è – alla Costituente, come Nitti (che era già stato membro della Consulta) che riprende i rapporti con il suo antico e permanente collegio di Muro Lucano. Poi Di Vittorio sarà alla Camera nelle file comuniste e Nitti al Senato guidando (con Vittorio Emanuele Orlando e Ivanoe Bonomi) l’Alleanza Democratica Nazionale che sarà decisiva per impedire alla DC nel 1953 di spuntare il risultato favorevole alla cosiddetta “legge truffa”.
Nel 1952 Nitti – in polemica soprattutto con la DC di De Gasperi che – a differenza dell’opinione di Sturzo – gli preferì, diciamo su istanze degli alleati americani, il suo successore alla guida della “Riforma Sociale“ Einaudi al Quirinale, guidò la lista delle sinistre alle elezioni per il Consiglio comunale di Roma, liste nelle quali Giuseppe Di Vittorio fu eletto con molti suffragi facendo l’intera consiliatura in Campidoglio. Un bel libro (Una questione capitale. Di Vittorio in Campidoglio, di Ilaria Romeo e Giuseppe Sircana), racconta questa storia.
Ecco, era difficile spendere meno parole per raccontare in grandissima sintesi due storie monumentali. Intrecciate, credo profondamente intrecciate, di un’Italia cambiata altrettanto profondamente almeno tre o quattro volte dalla loro nascita ancora nell’800 alla loro scomparsa a metà ‘900.Certamente per figure che si andavano formando con apertura alla vita collettiva, alla società, alla politica a cavallo tra quei due secoli e che provenivano dai contesti poveri del Mezzogiorno rurale, il tema terra e lavoro era una dominante nel rapporto tra pensiero e azione.
Di Vittorio vi generò la sua stessa vita sindacale, Nitti legò l’esperienza straordinaria dell’inchiesta parlamentare sui contadini della Basilicata e della Calabria (1910) alla sua fama di innovatore cioè con formule che il meridionalismo tradizionale guardava con sospetto, perché aperte ai processi di industrializzazione, ai progetti di infrastrutturazione, alla progettualità idrogeologica e poi successivamente a varie forme di modernizzazione (strutture e formazione) della pubblica amministrazione. Poco tempo dopo – malgrado i sospetti anche di Giolitti per la sua posizione radicale e per la sua competenza – ebbe il posto di Ministro dell’Agricoltura perché – come ricorda Giovanni Vetritto in una sua recente biografia di Nitti (edita da Rubbettino, per iniziativa della nostra Fondazione) “dopo l’ennesimo rifiuto dei socialisti di appoggiare Giolitti, lo stesso Giolitti si convinse , per coprirsi sul fronte progressista,a mettere Nitti alla prova del governo formato nel 1911”.
Se, nell’analisi delle grandi tematiche del meridionalismo, si vuole rintracciare il Nitti controcorrente l’esercizio produce molti risultati. A cominciare dagli scritti giovanili sull’emigrazione, quelli in cui tutti i grandi meridionalisti, compreso Giustino Fortunato che Nitti considerava “maestro”, vivevano come una sciagura e in cui il futuro capo del governo, pur nel comprendere la dolorosità del processo (“o emigranti o briganti”, scriveva), intravedeva una chance per il Mezzogiorno, sia culturale che economica.
Dopo terra e lavoro, ciò che lega queste due come tante altre grandi figure di quel tempo, la battaglia per la democrazia e la libertà. Anni di esilio, di preoccupazioni costanti, di disagi immensi personali e famigliari, di speranze continuamente frustrate, forgiarono una generazione a lavorare sull’immaginazione del futuro. E soprattutto a dare profondità alle parole della politica: un conto la propaganda, un conto la riorganizzazione di un pensiero sull’uomo di fronte a grandi, a volte troppo grandi, prove. Noi quelle storie non possiamo e non vogliamo tagliarle dalla nostra memoria, anche la nostra memoria di italiani graziati – parlo per me nato gemello della Costituzione – perché essa non ha avuto il peso degli orrori e dei disastri nazionali e sociali di due guerre mondiali nel giro di vent’anni. Ecco quindi il perché del rilievo delle nostre Fondazioni, che in quest’epoca assumono anche il ruolo di cultura della memoria che i partiti politici hanno tutti progressivamente abbandonato e quindi perduto, salvo piccole, occasionali, imbarazzanti “celebrazioni” di convenienza.
Troveremmo poi nessi e relazioni nella parola “sud”. Non ho il tempo e nemmeno tutte le capacità (pur da milanese con un nonno profondamente meridionale) a destreggiarmi su questo tema, anch’esso oggi fuori dall’agenda, tanto che la Fondazione Nitti ( e il suo comitato scientifico guidato da Giuseppe Galasso) intendono dedicare proprio al rovesciamento del tema nittiano (Nord e Sud era l’opera progettuale più simbolica di Nitti all’affaccio del ‘900, Sud e Nord è il titolo che vorremmo dare ad un nostro programma) appunto contiamo dal 2018 di dedicare un progetto di incontri politici, imprenditoriali, scientifici e mediatici a Villa Nitti ad Acquafredda (dove Nitti tornò dopo la guerra a scrivere le sue ultime opere) per tentare di riportare in agenda nazionale i nodi del paese – come scriveva e temeva Giorgio Ruffolo – “troppo lungo” e quindi “spezzato”. Personalmente ho trovato spunti di ispirazione nel lavoro di qualche anno fa che Fabrizio Barca, insieme ad altri, ha dedicato “al sud che ha fatto l’Italia”. Guarda caso i profili scelti per quel racconto sono stati cinque: insieme a Crispi, Menichella e Sturzo ecco i nomi di Giuseppe Di Vittorio e Francesco Saverio Nitti.
Ed è un Nitti di solito comprensivo con il Sud e le sue storie ma severo con i meridionali dentro i loro stereotipi. In Nord e Sud, quindi proprio nel 1900, scrive: “E’ innegabile che politicamente i meridionali hanno rappresentato un elemento di disordine. Le loro amministrazioni locali vanno, d’ordinario, male; i loro uomini politici non si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali. Un trattato di commercio ha quasi sempre per essi meno importanza che non la permanenza di un delegato di pubblica sicurezza”.
Vi sono poi le parole della diversità. Quelle per le quali questi nostri grandi italiani sono legati ai loro percorsi culturali e di esperienza. Di Vittorio è figlio dell’ideologia politica di origine marxista che ha per tutto il ‘900 scelto di difendere la povera gente (e che sa comunque alzare la testa di fronte alla manipolazione ideologica di tipo stalinista). Nitti accede ad un pensiero di riformismo complesso e con visione internazionale centrato sulle culture liberaldemocratiche in dialogo ma non in coincidenza con i partiti di massa che si andranno formando verso la metà del ‘900. Ma senza qui entrare nell’analisi che appartiene ad una immensa biblioteca di Scienze Politiche, noi ci accontentiamo di leggere scritti o di avere raccontate storie in cui tale diversità lascia queste figure in grado di dialogare, di cooperare, di legiferare, di rappresentare il popolo italiano.
E per noi questo deve essere ed è moltissimo
[1] Professore alla Università Iulm Milano, presidente della Fondazione “Francesco Saverio Nitti” a Melfi