Al Nord ci sono gli imprenditori che sperano nella flat tax. Al Sud coloro che attendono il reddito di cittadinanza. Poi, in mezzo, ci sono quelli che inneggiano ai respingimenti in mare per paura che le acque portino forza lavoro in grado di sottrarre quelle residue opportunità che restano ai nostri figli. E ancora. Ci sono quelli che sono favorevoli non solo al censimento nei campi rom, ma anche di tutti i diversi in generale perché a vario titolo scomodi. Sembra un’accusa la mia, ma non lo è. Anzi, sicuramente non sto dalla parte delle “anime belle” che, nei loro salotti eleganti o durante le “apericene”, criticano l’onda montante della protesta, confortati da sicurezze che magari sono il frutto di rendite di posizione. Io invece non do la colpa a nessuno, a partire da chi la pensa in maniera differente. E non perché voglio fare il cerchiobottista o perché non m’importa di quello che accade attorno a me. Ma per un’altra ragione. Siamo in guerra. Ed è la peggiore di questo secolo. È la guerra tra poveri. Vecchi e nuovi poveri, figli di questo tempo di crisi a cui nessuno, per troppi anni, ha dato ascolto, né voce. Una guerra di solitudine e, insieme, di appartenenza. Una guerra quotidiana in cui sono venuti a mancare non solo i soldi per mettere il piatto a tavola, ma pure le certezze, per non parlare dei diritti. Una guerra senza vincitori, soltanto vinti, e un solo arbitro possibile, lo Stato. Perché unicamente quando le Istituzioni si riapproprieranno del proprio ruolo (e pure di un po’ di autorevolezza), forse potremo dire di essere sulla via dell’armistizio. Una pace sociale che non si può rinviare perché qui chi sta sempre peggio non ha altro da fare se non affilare coltelli in direzione di coloro che sono ancora più indietro. I nuovi poveri, dicevo. Non immagino vecchi sfaticati cresciuti e pasciuti a pane e assistenzialismo. I nuovi poveri hanno il volto dei giovani laureati, delle partite iva, dei precari a tempo indeterminato. Mi riferisco a chi stenta ad avere anche una prima occasione, un primo approccio attraverso un tirocinio, a chi accetta uno stage non retribuito pur di “cominciare ad entrare”, dimenticando o facendo finta di non sapere che il lavoro, qualsiasi e a qualunque età, va sempre retribuito. Parlo di chi accetta di essere dequalificato e demansionato pur di non essere licenziato. È da tempo che ho smesso di dire che ciascuno, se capace, dovrebbe poter fare il lavoro dei propri sogni: ma è ugualmente uno strazio vedere laureati che stentano persino a trovare lavoro in imprese di pulizie. Sopratutto è mortificante per chi crede che la politica, per una Comunità, sia programmazione, progettazione, sviluppo e crescita. E invece, l’arretramento lo cogli proprio nella mediocrità (oltre che nella scarsa quantità) di lavoro che questo Paese riesce ad offrire ai propri figli. Ecco perché non ci si può sdegnare se, mancando tutto, in tanti decidono di scagliarsi contro l’altro, contro il prossimo, anche se sta nella loro stessa condizione. È questa la guerra tra poveri, fatta di paura e che non ha necessariamente bisogno che l’altro sbarchi da una costa lontana. Ma che certo, se lo vede arrivare, non ha alcun motivo per accoglierlo. Inutile dire che l’altro siamo noi stessi. Perché ormai quello che conta sono i fatti. E i fatti dicono che siamo poveri e soli. Anzi, siamo al buio. E ci resteremo fino a quando non si girerà l’interruttore delle idee, per il lavoro, la buona formazione, lo sviluppo. Questa è la scommessa che fa la differenza tra la guerra e la pace. Io lavoro per la pace.
27 Giugno 2018