Strani giorniL’Italia s’è destra (e la sinistra è tutta da rifare)

E insomma, la destra stravince. Lo so che non è bello. Non è bello svegliarsi e riscoprirsi in un'Italia ancora più di destra – e quindi più fascista, razzista e omofoba – di quella venuta fuori ne...

E insomma, la destra stravince. Lo so che non è bello. Non è bello svegliarsi e riscoprirsi in un’Italia ancora più di destra – e quindi più fascista, razzista e omofoba – di quella venuta fuori negli ultimi mesi. Eppure questo è: la destra c’è e vince a mani basse. Vince, soprattutto, nelle (ormai ex) regioni rosse. Vince a Pisa, a Siena, a Massa… segno evidente di una “sinistra”, almeno quella che siamo abituati a conoscere, che è morta. Ed è morta per due ragioni:
1) quella istituzionale ha pensato di fare gli interessi dei grandi poteri economici (o così è stata percepita), disaffezionando l’elettorato popolare. Il Pd, ormai, fa rima con Banca Etruria e riforma Fornero.
2) quella “di lotta” parla ancora come un volantino degli anni Settanta ad un mondo che è nel 2018. Sento ancora amici di sinistra sinistra parlare – e scrivere – come in un volantino di quarantanni fa. Di quelli che non vai a capo nemmeno una vota. E dove ogni tanto emergono termini come “salario”, “capitale”, “plusvalore”, ecc.

Sia ben chiaro, non sto dicendo che le lotte qualitifanti della sinistra non siano importanti. Disoccupazione, squilibri sociali, sfruttamento sono ancora oggi temi cruciali e sentiti sulla propria pelle da chi quei problemi li vive. Ma qui dobbiamo chiederci come mai invece di avere Potere al Popolo o Leu al 15%, abbiamo Salvini al 18% in parlamento e sopra il 25% nelle intenzioni di voto. Credo che la risposta stia tutta nel linguaggio. I fatti, certo, sono altra cosa. Ma i fatti li valuti poi. Il linguaggio è quella cosa che fa la differenza, soprattutto in campagna elettorale. Se la sinistra vuole reinventarsi, deve partire da lì. Ovviamente c’è tutto da rifare: un soggetto politico nuovo, facce nuove, parole nuove o, quanto meno, un nuovo modo di dire cose che hanno genesi antica e si traducono in mali contemporanei.

In questo processo di ricostruzione, va da sé che va licenziata in tronco la stragrande maggioranza della classe dirigente dei partiti che si definiscono progressisti (o simil tali). Per le ragioni di cui sopra. Non puoi fingerti di sinistra, a suon di unioni civili e biotestamento – conquiste importanti, da difendere – quando poi con la mano destra aiuti le banche, togli i diritti ai lavoratori (vedi articolo 18) e distruggi il tuo elettorato di base (scuola, sindacati, ecc). Con il risultato che adesso abbiamo Salvini che guida, di fatto, il governo. E grazie ancora al M5S che ha fatto il pienone di voti al sud per portarli tutti interi nel paniere di rivendicazioni, di narrazione e di progetti politici concreti della Lega. Ma il vostro voto conta, e chi lo mette in dubbio (seguono risate registrate).

Ancora sul leader (quello vero) del Pd, riporto le parole di Marco Damilano, in un articolo pubblicato sull’Espresso cartaceo: «Qualcuno mi ha scritto che ci siamo accorti troppo tardi del pericolo, che dovevamo pensarci prima, quando criticavamo Matteo Renzi. Penso, al contrario, che se qualcuna di quelle critiche fosse stata presa in considerazione non ci troveremmo in questa situazione. Quando nel 2014 alle elezioni regionali in Emilia solo il 37% degli elettori andò a votare e la Lega superò Forza Italia l’allora premier e segretario del PD esultò su Twitter. Invece, era un segnale d’allarme. E l’indifferenza all’ascolto della propria base popolare è per un partito l’inizio della fine». C’è altro da aggiungere?

Insomma, se vogliamo risorgere la ricetta poi non è così difficile da identificare: meno banche, più partite Iva. Meno citazioni di Marx, più politica sul territorio. Il resto è Lega. E in tutto questo, se mandate Renzi, Boschi e combriccola a cercarsi un lavoro, fate pure un grosso favore al Pd o a ciò che verrà fuori nei prossimi anni.

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