Marcegaglia assume ma col «contratto Marchionne»

Marcegaglia assume ma col «contratto Marchionne»

Steno Marcegaglia, padre di Emma e fondatore dell’impero dell’acciaio, per Natale parla sempre ai suoi operai. Ha 80 anni, un ritratto gigante sulla palazzina degli uffici di Gazoldo degli Ippoliti (26 chilometri fuori Mantova), e ogni anno ripete una battuta e una convinzione. La battuta è che da giovane era molto ambizioso e voleva diventare re o Papa: «Il Papa c’era già, e allora ho fatto il re; il re del tubo», dice, guadagnandosi l’applauso. La convinzione è invece che il successo dipenda dal gioco di squadra, e che, per averne una vincente, ci voglia la sintonia tra dirigenti e operai.

Le tute blu dicono che in Marcegaglia «si prende bene», cioè: si guadagna. Per questo il turnover è scarso. Il lavoro è sì duro, ma la gente, soddisfatta del salario, mette radici e resta fino alla pensione. E anche le liste d’attesa sono lunghe: mille, forse duemila domande d’assunzione attendono sulla scrivania del capo del personale. Ma qualcosa sta cambiando anche qui, sotto la spinta della crisi o dell’«effetto Marchionne». All’azienda non basta più il massimo di flessibilità (fino a 21 turni settimanali) concesso negli ultimi anni dai sindacati pur di evitare la cassa integrazione. Vuole recuperare terreno sulla competitività, limando il costo del lavoro.

Con la fine del 2010 è scaduto il contratto integrativo aziendale (che riguardava gli stabilimenti di Gazoldo degli Ippoliti, 1300 dipendenti; Contino di Volta Mantovana, 120 addetti alla produzione di trafilati pieni e tondini d’acciaio, e Casalmaggiore, in provincia di Cremona, dove si fabbricano tubi speciali, strutturali e per carpenteria, impiegando 350 persone) e la proprietà ha deciso di mandare in pensione il premio di produzione fisso (stabilito, con la firma del 2007, in 90 euro mensili erogati a tutti, indipendentemente dalla forma di contratto: tempo indeterminato, determinato o apprendisti). Marcegaglia vuole passare a un premio totalmente variabile. I sindacati spingono per mantenere almeno una percentuale di fisso. (In Fiat, sempre per tornare all’esempio Marchionne, il premio di produzione variabile, che era di 1.100 euro nel 2008, è stato dimezzato nel 2009 e azzerato nel 2010).

Ma è sulla promessa di 250 (poi 200) nuove assunzioni (tra questi stabilimenti e quelli di Ravenna e Forlì) che il gruppo ha scelto, nei confronti dei sindacati, la linea più assimilabile a quella di Marchionne. Ha posto infatti come requisito l’accettazione delle proprie condizioni: un doppio binario d’ingresso. In sostanza, i nuovi assunti non godrebbero più di tutto il salario aziendale pregresso conquistato negli anni, circa 400 euro. E se è vero che per loro si parla di uno stipendio di 1700 euro lordi, «l’assunzione prevede – dice la Fiom Lombardia –diverse clausole in deroga al contratto nazionale. I nuovi operai dovrebbero lavorare a ciclo continuo, quindi sia di sabato che di domenica, con 26 ore di straordinario al mese. Per chi non sarà nel ciclo continuo, lo stipendio sarebbe di poco superiore al minimo del contratto collettivo nazionale, quindi appena sopra i 1000 euro al mese».

Dopo l’opposizione unitaria dei sindacati, l’azienda ha proposto un salario d’ingresso di dieci anni e poi di cinque e infine un apprendistato di 36 o 42 mesi, a seconda della qualifica. Ma la trattativa si è arenata. La Fiom ha definito «inaccettabili» le condizioni, e la Fim Cisl qui si è detta «indisponibile a realizzare accordi separati a livello di coordinamento nazionale» e ha rimandato la discussione alle Rsu dei singoli stabilimenti.

A Gazoldo, paese di neanche tremila abitanti, lo stabilimento si estende su 525mila metri quadrati, 300mila dei quali coperti. Un gigante che dà lavoro a 1.300 persone, di cui circa un terzo impiegati d’ufficio, perché qui sta la testa amministrativa dell’azienda, che ha impianti sparsi per la Penisola (il più importante fuori dal mantovano è a Ravenna) e all’estero (Polonia, Russia, Usa, America del Sud, Asia). Su grossi camion arrivano i coil (le bobine d’acciaio) e dopo la lavorazione (decapaggio, laminazione a freddo e zincatura, con trattamento a caldo nella linea dell’inox) escono lamiere piane, tubi, tubi speciali, nastri aperti, profili aperti…

A seconda del reparto si lavora a ciclo continuo (21 turni su 7 giorni, con fermate concordate dalle Rsu. Di solito: Pasqua, Natale, Primo maggio, Capodanno e qualche vigilia); su 15 turni (tre al giorno dal lunedì al venerdì) o su 10 turni. Con l’accordo dei sindacati la mensa è stata spostata a fine turno in cambio di una riduzione oraria di 40 minuti: 20 minuti di rol a inizio giornata e altrettanto alla fine. Si lavorano, insomma, 7 ore e dieci. Soste non ne sono previste, ma qui la catena è «a maglie larghe», e concede stacchi, a differenza del montaggio nell’industria automobilistica. Si alternano sei giorni di lavoro a due di riposo.

Anche in Marcegaglia si denuncia una crescita dell’assenteismo. «Vero», ammette Giuliano Berti, delegato della Fiom (uno degli undici; la Fim ne ha tre, la Uim uno, e la Fiom ha anche la maggioranza dei tesserati, 320 su circa 400), «ma definiamolo bene questo assenteismo! Per loro è quando non vai al lavoro. Punto e basta. Anche se sei malato. Il dato medio è dell’8,5 per cento. Però si punta sempre il dito sul fatto che nei reparti produttivi il tasso è molto più alto (fino al 12%) rispetto a quello registrato tra gli impiegati (innalzato solo dalle gravidanze, perché lì ci sono le donne). Ma gli operai non sono fannulloni! Bisogna considerare le diverse condizioni. Il nostro è un lavoro pericoloso, rumoroso, polveroso. I capannoni sono aperti, e anche se siamo riusciti ad avere negli anni alcune cabine climatizzate, fa freddo d’inverno e caldo d’estate. E gli infortuni sono frequenti. Come possono paragonarci, con una semplice percentuale, a chi sta in ufficio? La i di Fiom non sta per “italiana”, come molti credono, ma per “impiegati”: Federazione impiegati operai metalmeccanici. Da sempre sappiamo che noi e loro siamo gemelli, anche se non omozigoti. Cambia solo l’abito: noi in tuta, loro in cravatta. Però loro sono sempre stati più vicini al padrone. Hanno sempre beneficiato delle nostre lotte, senza mai averle combattute».

Berti è convinto che l’operazione di Marcegaglia sia «un altro ariete» per provare a rompere il fronte sindacale e a forzare sulle deroghe al contratto. «Non può essere solo un caso», dice. «Questa è l’azienda del presidente di Confindustria e la seconda più importante del mantovano, dietro solo alla Fiat Iveco di Suzzara che dà lavoro a 2000 persone». (Il gruppo Marcegaglia impiega 1.700 persone nella provincia; 4.500 in Italia, 6.500 nel mondo) .
«Finora avevamo sempre firmato buoni accordi. Ora qualcosa dovrà cambiare. Sui dati di valutazione della produttività non abbiamo mai messo il naso. Da parte dell’azienda c’è solo una costante richiesta di aumentare la velocità degli impianti. Ma gli operai devono partecipare alla fase in cui si fissano i ritmi di lavoro. Non si può pretendere di passare al premio variabile e di cambiare le relazioni industriali mantenendo la determinazione degli obiettivi nelle sole mani dei padroni».
«Ora ci dicono che bisogna innovare per resistere alla concorrenza estrema dei Paesi emergenti come la Cina, e che il capitalismo italiano è moderno, pronto alla sfida e frenato da un sindacalismo vecchio che mira solo a conservare i privilegi del passato. Ma a noi chi è stato a metterci in testa che, per il successo dell’azienda, oltre alle capacità di gestione dell’imprenditore ci vogliono paghe adeguate e operai soddisfatti? Il Cavalier Steno, Natale dopo Natale…». 

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