Nel mondo anglosassone ci sono pomposi libroni che vengono regalati ai bambini e sono sfogliati, con ancor più piacere, dai grandi. Sono elenchi dettagliati che vanno sotto il titolo di Flags of the world. In Italia, la coloratissima lista di bandiere chiude invece, di solito, gli atlanti geografici, i calendari statistici e i buoni dizionari.
Gli Stati del mondo sono (a includere anche quelli non da tutti riconosciuti) 201. Con i territori, le dipendenze, gli organismi internazionali e gli Stati federati si arriva agilmente a qualche centinaio di vessilli, più o meno fittamente stampati. L’occhio, nel suo tentativo di ordine, coglie i ritorni cromatici: i colori panslavi (rosso, bianco, blu), panafricani (giallo, verde, rosso, nero), panarabi… E poi croci, stelle e strisce, tricolori, cerchi e mezzelune. Persino, a impegnarsi, un kalashnikov o un pappagallo.
Ma resiste, fino a oggi, un caso unico. Una grande eccezione, per gli appassionati di vessilli. Una sola bandiera monocolore. Senza strisce, insegne, scritte, stemmi. Niente di niente. Solo una uniforme pennellata. Di verde. È quella della Libia del colonnello Gheddafi.
La disciplina che studia le bandiere, la loro storia, i loro disegni, è la vessillologia. Un termine abbastanza recente (coniato nel 1958 da Whitney Smith) che l’ha finalmente affrancata dall’araldica. A livello mondiale i vessillologi si riuniscono in una federazione chiamata Fiav. In Italia, a rappresentarla c’è il Cisv di Torino, nato nel 1972 da una costola dell’Accademia di San Marciano. Presidente è, dal 2000, il lucchese Roberto Breschi.
«Certo», conferma a Linkiesta, «se il regime di Gheddafi dovesse cadere, noi studiosi di bandiere rischieremmo di restare orfani di un caso unico nella nostra materia, visto che i ribelli sventolano il tricolore dei Senussi. Sono pochissimi i casi di bandiere monocromatiche nella storia. Nella tradizione europea, più che insegne di Stato, ci ricordano i drappi di segnalazione (gare automobilistiche, condizione del mare eccetera). In realtà, qualche precedente al mondo c’è. Ci sono state nel Sudest asiatico bandiere tutte gialle (che da noi servivano invece per la quarantena, quando le navi stazionavano al largo, in caso di epidemia). Le alzavano alcuni Stati federati della Malaysia e un po’ di province dell’Indonesia. Nella penisola arabica non sono mancate bandiere tutte rosse. L’ultima è stata, fino al 1970, quella dell’Oman. E poi, per almeno un biennio, i talebani hanno sventolato in Afghanistan una bandiera tutta bianca. Ma in realtà, nel mondo musulmano, spesso, le bandiere monocrome sono semplificazioni di labari su cui dovrebbe essere scritto qualcosa – versetti del corano, di solito – che, in condizioni di povertà, mancanza di materiale o incapacità tecnica vengono semplificate. Anche in quel caso, infatti, la versione completa, seppur meno diffusa, comprendeva la shahada, la professione di fede, in nero o verde scuro. Il caso libico, insomma, è un unicum dal 1977».
Breschi ci tiene a sottolineare le possibilità interpretative offerte alla geopolitica dalla sua scienza e prova ad applicarle all’attuale crisi di Tripoli. «Intanto, a mio parere, è significativo che ci sia stato un salto di bandiera», dice. «I rivoltosi, infatti, non sono tornati alla “bandiera della liberazione araba”, simile a quella egiziana, che in due versioni – senza e con falco d’oro dei Quraishiti – rappresentò il Paese dal 1969 al 1977, durante l’esperienza della Federazione delle Repubbliche arabe con Egitto e Siria». Uno dei più fallimentari e presto dimenticati esempi d’unione sovranazionale (peraltro da non confondere con la Rau, la Repubblica Araba Unita). E da cui la Libia uscì, in protesta per la visita del presidente egiziano Sadat in Israele, nel 1977, con la creazione della Jamāhīriyya (e la conseguente adozione del monocolore verde l’11 novembre di quell’anno).
«Chi combatte contro Gheddafi ha invece ripreso la bandiera monarchica», prosegue Breschi, «e in particolare quella che, partendo dalla base nera con stella e crescente del re Idris e della Cirenaica, aveva visto l’aggiunta delle strisce rossa e verde per rappresentare il Fezzan e la Tripolitania». «Più che un contagio panarabo delle vicine rivolte, insomma, i libici sembrerebbero sventolare le insegne di una liberazione tutta nazionale, ribadendo quanto ci tengono all’unione delle varie parti del Paese. A livello di simboli, infatti, non esprimono un desiderio di secessione delle zone già controllate, altrimenti avrebbero potuto usare le specifiche bandiere regionali».
In giro per il mondo, le ambasciate che hanno voltato le spalle al raìs hanno alzato la bandiera che fu ufficiale dal 21 dicembre 1951 al rovesciamento della monarchia nel 1969. È successo a Roma e anche all’Onu. Su wikipedia – versione italiana – era apparsa fugacemente, poi è tornato il monocolore. Esempio, forse, di guerriglia da tastiera. Se davvero la vessillologia aiuti a decodificare gli spiriti della rivolta è da dimostrare. Di sicuro, come abbiamo visto, favorisce il ripasso storico. E in fondo sembra abbastanza scontato che i libici non siano tornati alla bandiera panaraba, visto che fu imposta all’inizio proprio da Gheddafi. Né, del resto, la scelta sembra poter riguardare un indirizzo di regime istituzionale: monarchia al posto della repubblica. Come ha confermato ad Al Jazeera Youcef Bouandel, un professore libico di affari internazionali alla Qatar University: «Non si vuole un ritorno del re. Semplicemente quella è la bandiera della libertà. Di quando il Paese ottenne l’indipendenza dagli italiani. Un’indipendenza poi scippata da Gheddafi». È, insomma, un passaggio psicologico simile a quello dei russi nel 1991 (che certo non avevano nostalgia dello zar quando rimisero il tricolore sul Cremlino).
Negli anni, le bandiere sono state innalzate dopo la vittoria (quella sovietica, sul Reichstag) e mestamente ammainate. Sono state bruciate per protesta (nella classifica delle più arse primeggiano senz’altro quelle di Stati Uniti e Israele) e disegnate a mano su fogli e facce. Sempre mosse dal vento della storia, non hanno mai smesso di dimostrare la loro propensione e propulsione retorica. Sono fatte di stoffa ma anche di illusioni e menzogna. E, in questi giorni di guerra, la preoccupazione da parte degli studiosi di vessillologia (e degli sfogliatori seriali di atlanti) di poter perdere il loro frutto raro – la loro unica bandiera monocolore – appare un’ingenuità tenerissima di fronte al bisogno di ordine e stabilità professati fino all’ultimo da chi, in Libia, ha tanti interessi politici ed economici. E che, facendo vessillo della propria prudenza, continua soltanto ad attendere per capire a quale bandiera sia ora il caso di dimostrare più affetto.