L’Italia sulla Libia latita e ci costerà caro

L’Italia sulla Libia latita e ci costerà caro

In Libia siamo alle prese con due fallimenti. Il primo è il fallimento del regime libico di Muammar Gheddafi, il secondo è il fallimento della rivolta. Partendo da questa premessa la comunità occidentale dovrebbe cambiare l’atteggiamento sin qui tenuto nella crisi libica, a cominciare dall’abbandono della retorica manichea imposta finora. Abbiamo una reale convenienza a intervenire direttamente – e militarmente – in un processo, quello della rivolta araba, che sin qui ha avuto connotazioni endogene? La Nato pare pronta a sostenere una missione umanitaria in Libia ma anche a valutare anche «altre opzioni» come quella militare. Ma, ha detto il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, solo a patto che si realizzino tre condizioni ritenute fondamentali: «una dimostrata necessità di intervento», «un chiaro mandato legale» e «un fermo supporto regionale». «La Nato – ha aggiunto – è pronta a valutare tutte le possibilità nel quadro di una pianificazione prudente» .

Pare che la spirale sia innescata. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti si sono rincorsi in un escalation di retorica pro–intervento. Il presidente francese Nicolas Sarkozy dopo aver legittimato come rappresentante del popolo libico il consiglio nazionale di Bengasi pare oggi spingere con i partner Ue per raid «mirati» contro il regime tripolino. L’Italia, dopo le iniziali titubanze, si è tardivamente allineata alla posizione atlantica, perdendo di fatto il vantaggio di poter essere un interlocutore di entrambe le parti in conflitto, soprattutto con Gheddafi.

Servirebbe un impegno italiano che stenta a manifestarsi. «L’Italia condividerà le scelte della Nato sulla Libia. La nostra posizione non sarà né quella di aizzare né quella di frenare», ha detto il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Sarebbe invece il caso di provare a orientare le azioni di Ue e Nato, altrimenti si rischia di dover subire le decisioni altrui. E avremmo valide ragioni per far sentire la nostra voce. La prima è data dalla conoscenza del Paese e dagli interessi italiani in Libia. Quest’area dovrebbe essere la sfera d’azione primaria della nostra politica estera. La seconda ragione è che le conseguenze di questa crisi le subirebbe – come già sta accadendo- principalmente l’Italia. Non si tratta solo di riparare all’ondata di profughi e immigrati, ma anche di essere pronti a ricevere la ritorsione di Gheddafi. Messo alle strette militarmente, minacciato della propria vita, il Colonnello libico potrebbe rispondere ad azioni militari con reazioni di guerra. Non sarebbe la prima volta peraltro. Basta ricordare il lancio dei missili su Lampedusa.

Allora, 15 aprile 1986, ad essere lanciati contro il territorio italiano furono due missili SS-1 Scud in dotazione alle forze armate libiche, che avrebbero dovuto colpire un’installazione militare statunitense Loran situata sull’isola di Lampedusa come ritorsione per il bombardamento della Libia. Sarebbe come giocare d’azzardo sapendo com’è finita l’ultima volta. Siamo sicuri poi che l’imposizione di una no-fly zone o di una azione con bombardamenti “mirati“ condurrebbe alla caduta di Gheddafi? O sarebbe solo il primo passo di un ulteriore impegno? L’uso della forza nel conflitto interno di un paese non si risolve solitamente con il primo intervento. Crea anzi i presupposti di una lunga presenza, tramutando la “responsabilità di proteggere”, un possibile intervento motivato da ragioni umanitarie, in una sorta di semi-protettorato. Gheddafi poi userebbe mezzi di terra o elicotteri che difficilmente vengono bloccati dalla no fly zone. È quello che desideriamo? È ciò che conviene all’Italia? E’ la Nato l’organizzazione adeguata a questo intervento?

È tempo di cambiare prospettiva. Attorno alla Libia è già in atto un gioco per amicarsi la nuova classe dirigente con protagoniste le potenze occidentali. Anziché lusingare e fomentare in ordine sparso il comitato formatosi a Bengasi, senza alcuna sicurezza che sia rappresentativo della popolazione libica, o proporre di dotarlo di armamenti, alimentando la guerra civile, andrebbero prese iniziative diplomatiche adeguate. Le due parti in conflitto andrebbero messe di fronte ai loro rispettivi fallimenti. Il nodo sarebbe comunque l’abbandono del paese da parte di Gheddafi. L’ipotesi di Muammar che lascia il potere al figlio Saif potrebbe essere accolta dai rivoltosi di Bengasi? Neppure se fosse una soluzione provvisoria sotto tutela occidentale? Potrebbe sembrare utopico ma se c’è ancora una flebile speranza di un accordo andrebbe comunque verificato fino in fondo. L’azione militare in Libia sarebbe solo l’ultimo tassello della schizofrenica politica occidentale dell’ultimo decennio. Dopo esser tornati sui nostri passi, abbiamo compreso che si può e si deve parlare con Hamas, Hezbollah e i Talebani: non si può più farlo con Gheddafi o con il suo clan? Questo sarebbe estremamente realista e l’Italia avrebbe il dovere di proporsi come interlocutore di entrambe le parti cercando di dettare l’agenda ai partner europei anziché subirla.

*Ricercatore Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi)