Professor Lombardi, la situazione a Lampedusa sta andando fuori controllo?
Indubbiamente è molto complicata, bisogna riconoscerlo. Il flusso è rilevante.
Ma alla fine quante persone arriveranno?
Trovo compatibile con la realtà l’ipotesi del ministero dell’Interno di 50 mila. Nel passato siamo arrivati a 30-35 mila unità all’anno. Resta ora da capire se questo stock che abbiamo dimostrato di saper gestire sarà raggiunto e superato in un tempo molto ristretto, tipo due settimane, o spalmato nel tempo. Potrebbe essere molto più critico l’impatto rapido rispetto al grande numero. Insomma: peggio 50mila arrivi in due settimane che 200mila nel corso di più mesi. Anche perché il grosso del problema è quello dell’identificazione, che deve essere rapida.
In che senso?
È necessario fin dall’inizio biforcare i destini degli immigrati irregolari da rimpatriare e di quelli che hanno diritto alla concessione dell’asilo. Più i tempi si allungano, più aumenta la tensione. L’incertezza del proprio destino fa crescere il rischio di rivolte.
Sarà un’operazione complessa?
Questa identificazione è lunga a cose normali, figuriamoci in condizioni d’emergenza. Gran parte degli immigrati arriva, spesso ad arte, senza documenti. Stavolta ci aiuta almeno la componente linguistica. Era pietoso l’altra sera in tv vedere, al di là delle barriere, un immigrato che, in uno stentatissimo inglese e con evidente cadenza francese, sosteneva di essere libico. La Libia, a differenza degli altri Paesi del Maghreb, non è francofona…
Si parla di una redistribuzione degli immigrati nelle varie regioni…
Finora poco si è fatto dal punto di vista pratico, ma quanto alla teoria, i numeri lo impongono. Questa è un’emergenza vera. Abbiamo gestito campi profughi grandi, per esempio le tendopoli dopo i terremoti, ma mai grandi come in questo caso (potenzialmente 50 mila persone e oltre). La redistribuzione è inevitabile. L’importante è che per quei campi non ci sia solo una data di apertura, ma anche quella di chiusura. Sono realtà che non si possono far incancrenire. Si può pensare anche a buffer zone, zone tampone. Non sta scritto da nessuna parte che il riconoscimento debba essere fatto per forza a Lampedusa, un’isola che rischia di scoppiare. Può essere spostato in un’area continentale di prossimità navale. Ripeto, il problema dell’identificazione resta centrale. E non è sufficiente il punto d’imbarco per fare la distinzione. Una nave partita dalle coste del Maghreb può portare dei tunisini (che non hanno diritto all’asilo) e dei libici che lo hanno e che sono, in prospettiva, risorse preziose.
Risorse preziose?
Queste persone a cui daremo asilo possono essere fondamentali per riannodare i rapporti con la Libia del dopo Gheddafi (e speriamo che il nostro amico colonnello esca di scena in tempi rapidi, per evitare un’ulteriore destabilizzazione di quella realtà). Potremmo fare allora rimpatri assistiti e missioni di terra, umanitarie. Io ripeto sempre che, più che reattivi bisognerebbe essere pro-attivi. Agire prima, prevenire. Adesso, ad esempio, dovremmo lavorare in Tunisia in campi creati lì, in accordo col governo di Tunisi. La situazione è veramente preoccupante là. Interi villaggi si stanno svuotando. Non si emigra da soli, ma con parenti e amici. Restano solo donne e vecchi. La mancanza di forza lavoro rischia di deprimere ancora di più quelle zone. Uno sconquasso. Bisogna agire in fretta. E là. In Albania il fenomeno scafisti lo annullammo solo dopo aver portato soldi e sicurezza, con investimenti in loco e nostri soldati a formare i loro e a fare pattugliamenti congiunti.
Si teme anche il rischio fondamentalismo.
Lo spettro viene agitato, ma il pericolo è scarso. Il terrorista non arriva sul barcone, non si prende il rischio del mare mosso. Arriva in aereo, magari in business class, e va pure a farsi una visita da turista in Vaticano. Insomma, ha fondi a disposizione e mezzi di trasporto ben più sicuri.
L’altra paura è quella delle epidemie
Anche questo è uno spettro, ma concordo col ministero della Salute, che ha rassicurato. Ci sono problemi di salute pubblica tra gli immigrati perché migliaia di persone mangiano male, sporcano male e non possono pulirsi. Ma non ci sarà un contagio di chissà quali strane malattie. Non sta arrivando la peste, insomma. Poi, a Lampedusa, ci vorrà sicuramente una bonifica del territorio. Ma questo è un altro discorso.
Il vero rischio resta l’ordine pubblico. Non dico l’aria condizionata, ma almeno bagni e acqua corrente dovremmo fornirgliela. Il fatto che questi centri di accoglienza siano “temporanei” non può essere un alibi per non offrire nemmeno – parlo brutalmente – i cessi. Le vere rivolte nascono per il malcontento: se non si mangia, se le condizioni igieniche sono drammatiche, se si è ammassati in poco spazio. E poi nessuno è interessato a rimanere dove viene portato o trattenuto. Anzi, tende a fuggirne. Tanto che molti vivono l’Italia come terra di transito. Per i tunisini, francofoni, la destinazione naturale è la Francia. Presto Ventimiglia sarà la nuova Lampedusa, se i francesi continuano a far finta di nulla e a far blocco, come se d’improvviso fossero rinate le frontiere cancellate da Schengen. È un’ulteriore sconfitta dell’Ue. A questa Europa continua a mancare drammaticamente la politica comune su sicurezza e immigrazione.
C’è anche la proposta di pagare gli immigrati per farli tornare a casa
Sono molto critico su questa ipotesi che tecnicamente si definisce refueling. Rischia di diventare un business. Potremmo creare dei professionisti dell’attraversamento “andata e ritorno” del Mediterraneo. E non dimentichiamoci che nel contesto dello smuggling, il traffico di esseri umani – assieme a quello di droga e di armi – è un possibile mezzo di finanziamento dei gruppi terroristici.
Ma siamo arrivati in ritardo?
Sì, ma non nell’organizzazione delle tende a Lampedusa. Più in generale. Nella lettura dei fatti del Nordafrica. Un po’ per ignoranza generale, anche geografica… Si continua a sentir dire che Lampedusa e Pantelleria sono pochi chilometri a Nord della Tunisia. Invece no, sono a Est. L’Italia in quel punto è più a Sud del settentrione dell’Africa… E Lampedusa è più vicina alla costa tunisina che a quella siciliana. Comunque, il vero dramma è stata l’incapacità o la non volontà di lettura delle potenzialità di cambiamento delle rivolte arabe. Si è continuato a voler credere nei dittatori con cui si avevano buoni rapporti, mentre forse era il caso di intercettare quelle rivolte. Persino di partecipare a quelle rivolte. C’è ancora tempo per agire “proattivamente”. Troviamo subito accordi col governo tunisino e, appena possibile, con quello libico. Se siamo riusciti a farcela con uno come Gheddafi, non si capisce perché non dovremmo riuscire a bloccare sul nascere gli scafisti adesso. Magari, stavolta, pure con più democrazia e benessere.