L’attuale situazione in Libia è il frutto di tre fallimenti. Il primo è il fallimento del regime di Gheddafi. Nonostante le amplificazioni e le invenzioni dei media arabi sui massacri condotti dall’esercito libico nei primi giorni di proteste (con al Jazeera a tirar le fila) il Colonnello nel giro di un mese – dal giorno dello scoppio della rivolta a quello dell’intervento militare sotto egida Onu – è tornato ad essere il Mad Dog che era negli anni Ottanta. Il secondo fallimento è quello della rivolta. La storia ci dirà in futuro quanto di spontaneo e quanto di preparato vi fosse nelle insurrezioni di febbraio delle città libiche e se alla autonomia di chi protestava si siano unite prontamente forze più organizzate – come gli interi reparti dell’esercito subito passati con i rivoltosi – che probabilmente già meditavano azioni contro il regime. Nonostante ciò la rivolta non ha avuto successo. È mancato il supporto in vaste aree del paese rimaste fedeli al regime. Il terzo fallimento è quello dell’intervento militare che ha imposto la “no fly zone plus”. Se infatti l’obiettivo dichiarato era quello umanitario, il vero obbiettivo era quello di contribuire alla caduta di Gheddafi. Così non è stato.
Nonostante l’intervento militare in favore dei rivoltosi, il conflitto in Libia è nuovamente in una fase di stallo. I lealisti fedeli a Gheddafi e le forze sotto il controllo del Consiglio Nazionale Provvisorio di Bengasi si fronteggiano tra le località di Ras Lanuf, Marsa El Brega e Ajdabiya. La disorganizzazione, la scarsa preparazione militare degli insorti e gli insufficienti mezzi a loro disposizione non hanno permesso loro di ottenere il successo militare sperato. Allo stesso tempo il regime di Gheddafi sembra avere ancora consenso non solo in buona parte della Tripolitania ma anche del Fezzan, regioni nelle quali la rivolta non pare aver preso piede come in Cirenaica. L’intervento militare sotto l’autorizzazione delle Nazioni Unite ha conseguito l’obiettivo della parziale distruzione delle forze armate del regime ma non il completo arresto dell’avanzata sul terreno. Anzi le forze del rais sembrano poter minacciare direttamente le città degli insorti.
Mentre il conflitto pare così sedimentarsi, sorgono gli interrogativi relativi al perdurare del conflitto e ai suoi possibili esiti. La difficile soluzione politica della crisi (con i vari e diversi tentativi di mediazione o sistemazione diplomatica di Ua, Turchia e Italia) e l’empasse militare potrebbero portare a prendere in considerazione un intervento via terra di qualche tipo. Questo naturalmente dovrebbe passare da un nuovo voto in Consiglio di Sicurezza.
È difficile infatti pensare di poter ribaltare questo stallo senza l’impiego di mezzi militari e truppe via terra contro Gheddafi, ma questa ipotesi è stata finora esclusa. Anche quella di fornire armi ai ribelli è però una scelta non priva di implicazioni complesse e, in parte, controproducenti, simili, ad esempio, a quelle viste in passato in Afghanistan. Chi stiamo armando? Cosa succederà una volta terminata la guerra?
Alla lunga, se il conflitto perdurasse, per uscire dall’empasse, si potrebbe arrivare alla soluzione dell’invio di una forza di interposizione tra le due parti. Con questo scopo più limitato un’autorizzazione al CdS sarebbe forse più facile. Negli ambienti militari Nato e della coalizione se ne parla già piuttosto apertamente. Questo sancirebbe però la divisione del paese per un periodo di tempo indeterminato. Nonostante nessuno si dichiari a favore della soluzione della separazione in due della Libia, alla fine questa appare oggi un’ipotesi molto probabile se il regime di Gheddafi resistesse. A chi potrebbe andare bene questo esito?
In prospettiva, questo scenario potrebbe anche essere accettabile per diversi paesi, a cominciare dall’Egitto, che si avvantaggerebbe di un vicino debole e ricco di risorse come la Cirenaica, che ha contribuito a sorreggere politicamente e militarmente. I paesi del Golfo ne sarebbero felici: Gheddafi sarebbe limitato, la Libia divisa e un rivale nel campo dell’energia indebolito. A lungo andare anche Francia e Gran Bretagna potrebbero vedere la divisione come un compromesso percorribile per evitare l’onta del fallimento di un’operazione militare che i due paesi hanno più di altri voluto e guidato. L’importante sarebbe avere una Cirenaica più grande di quella attualmente controllata dai rivoltosi, comprendente l’area a sud della costa con i ricchi giacimenti petroliferi e l’area costiera oggi contesa con i terminal e le raffinerie. Un eventuale contingente internazionale con lo scopo dell’interposizione potrebbe tracciare di fatto la divisione del paese secondo linee più favorevoli. Gli stati Uniti, come fatto finora, avrebbero poco da obiettare. Gli europei si dovranno abituare a un ruolo statunitense più defilato e ad un Mediterraneo “post-americano”.
Ancora una volta per l’Italia sarebbe invece un’opzione da non desiderare: ci troveremmo a gestire un duplice difficile rapporto: da una parte la Tripolitania con Gheddafi “tradito”, dall’altra la Cirenaica che potrebbe guardare altrove per individuare partner meno “compromessi”.
* ricercatore Ispi