«Il partito dell’astensione, fatto da vecchi e sfiduciati»

«Il partito dell’astensione, fatto da vecchi e sfiduciati»

Professor Feltrin, ormai è da una decina di anni che dopo ogni elezione il primo commento obbligato è sul numero crescente di chi non vota. Proviamo ad anticipare il commento, stavolta. Stiamo davvero assistendo a un crollo della partecipazione elettorale? Sta vincendo – come amano scrivere i giornali – il «partito dell’astensione»?
Non possiamo negare l’evidenza. Non negli ultimi dieci, ma negli ultimi trent’anni, la percentuale di chi diserta le urne è cresciuta progressivamente alle Politiche, ma soprattutto alle Europee e ancor più alle Regionali. Alla fine degli anni Settanta andava a votare circa il 90 per cento degli italiani, con poca differenza fra i tipi di consultazione. Poi l’astensione ha iniziato a crescere (con due picchi: Tangentopoli e gli ultimi cinque anni) ed è aumentato anche il gap di partecipazione tra i diversi tipi di votazione. Le Politiche hanno tenuto di più (81,3% alle ultime del 2008). Per Europee (69,6% nel 2009) e Regionali (63,5% nel 2010) il calo è stato netto. E lo strano è che la partecipazione alle Regionali è scesa proprio oggi che quel voto dovrebbe apparire più importante, più politico, vista la riforma costituzionale del Titolo V della Costituzione del 2001 e tutta la questione del federalismo…
 

Stavolta però sono amministrative. Si vota per Comuni e Province. Il discorso cambia?
Per le comunali la “salienza”, come chiamiamo nel linguaggio tecnico l’interesse – l’importanza percepita – delle elezioni, è alta. La seconda più alta dopo le Politiche. Per le provinciali è la più bassa in assoluto. La scala è: Politiche, Comunali, Regionali, Europee, Provinciali. Quindi, laddove si vota solo per la Provincia, voteranno in pochi, forse anche meno del 60% degli aventi diritto. Dove si vota per il Comune, il flusso sarà più alto. Comunque, queste amministrative sono a bassa salienza, perché è vero che c’è Milano, ma è l’unica città dove si può innescare una vera lettura politica del risultato. Tanto che Berlusconi, che in questo si è sempre dimostrato abilissimo, è lì che ha puntato a iperpoliticizzare la sfida, per avere il cosiddetto effetto referendum, la polarizzazione in un sì o no al suo candidato. Napoli non conta più di tanto. Torino ha un esito troppo scontato. Quanto all’astensione, i numeri importanti potrebbero essere quelli del ballottaggio. Lì sì stavolta potremmo raggiungere il record negativo.

Ma perché la partecipazione è così in calo?
Dopo ogni voto i commenti si concentrano esclusivamente sull’astensionismo «volontario». Ma visto che stavolta ne parliamo a freddo, prima delle elezioni, può essere l’occasione per ampliare il discorso e non limitarci solo a uno degli aspetti del problema. È ovvio che c’è disaffezione, malcontento nei confronti dei politici e dei partiti, voglia di protesta. Il che si fonde col fatto che, col passare del tempo e con l’abitudine alla democrazia, una parte degli elettori percepisce come meno doveroso l’atto sociale del voto. Ma nell’astensione ci sono anche fattori «forzosi» da non sottovalutare. Non tutto è motivazionale.

Cioè?
Ad esempio la questione demografica. Il nostro è un Paese che invecchia in fretta. E la crescita della percentuale di anziani nell’elettorato fa sì che aumenti automaticamente il numero di astensioni legate all’impedimento fisico. E anche l’incremento della mobilità territoriale per lavoro, studio o per semplice vacanza o weekend, magari low cost, ha inevitabili ricadute sulla possibilità di andare a votare. A ridurre questo fattore aiuterebbe la possibilità del voto per corrispondenza. Ma bisogna dire che in Italia il sistema tende già a contenere l’astensione, visto che si è iscritti automaticamente nelle liste elettorali, a differenza dei Paesi (gli Stati Uniti, ad esempio) dove bisogna registrarsi. Certo poi l’affluenza è più alta in quegli Stati dove il voto è obbligatorio, come il Lussemburgo o il Belgio. Ma non dobbiamo mai dimenticare che, nonostante la crescente disaffezione per la politica, rimaniamo uno dei Paesi con la partecipazione elettorale più alta al mondo. E la crescita dell’astensione non è in controtendenza rispetto al resto dei casi in Occidente.

Quindi lei tende a sminuire il peso dello scontento generalizzato e dell’antipolitica?
Non voglio dir questo. Anzi. Ma se si vogliono leggere e interpretare correttamente i dati bisogna avere un approccio scientifico. Purtroppo, spesso, l’analisi del trend della partecipazione elettorale in Italia non tiene conto di variabili importanti ed espone al rischio di errori marchiani. Faccio degli esempi. Intanto, bisogna analizzare la dimensione del corpo elettorale. Il calcolo del numero degli elettori non è sempre uguale negli anni. Dal 2006, alle elezioni Politiche non sono più compresi gli italiani residenti all’estero, che hanno apposite circoscrizioni. La base degli aventi diritto si è ridotta. E mica di poco. Circa 2 milioni di persone, in termini percentuali grossomodo il 4 per cento. Basta sapere questo e non serve nient’altro a giustificare «l’improvvisa ripresa» della partecipazione alle Politiche del 2006: dall’82,9 all’84,6%. Eppure molte spiegazioni giornalistiche furono di tipo «motivazionale»: scelta dei candidati, polarizzazione dello scontro e cose simili.

E ci sono altri fattori come questo?
Certo. Uno è la reintroduzione della doppia giornata di voto dalle Europee del 2004. Più ore di apertura dei seggi vuol dire più votanti. Basta questa modifica legislativa a spiegare il balzo in avanti nell’affluenza alle Europee dal 72,3% del 1999 al 74,6% del 2004. E poi c’è la questione degli election day. Se il voto amministrativo (Comunale, in particolare, che come detto attira più votanti) coincide, mettiamo caso con le Europee, come è capitato in molte realtà nel 2009, può avere un consistente effetto traino. I politici lo sanno e scelgono anche in base a questo se riunire consultazioni diverse in unico giorno o tenerle divise.

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