Una Libia debole e fragile, uno stato fallito o due Libie. Questi gli scenari più plausibili a quasi due mesi dall’inizio dell’intervento militare decretato dalla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza Onu.
La prima ipotesi, passa per la caduta del regime di Gheddafi, per un processo di riconciliazione nazionale, per la creazione di nuove istituzioni, per il rilancio di un’identità nazionale da sempre debole e da un rinnovato equilibrio tra le varie componenti di controllo e potere in Libia: i clan, i capi-città influenti che hanno colmato il vuoto di potere, i militari passati sotto gli insorti, i pochi imprenditori libici, i componenti più importanti del Consiglio nazionale transitorio di Bengasi, i rappresentanti dei gruppi e delle città che non hanno avversato Gheddafi, ma che non risultano troppo compromessi con il regime. Sarebbe una vera impresa di “nation building”, non solo di state building.
Ci vorrebbero anni, ci vorrebbe un impegno sostanzioso da parte della comunità internazionale, soldi, uomini e capacità. Ci vorrebbe una sensibilità e conoscenza del territorio e del paese che pochi hanno. Il risultato migliore che ne potrebbe comunque uscire sarebbe uno stato molto debole, frutto di molti compromessi, forse più libero del vecchio regime, forse però anche meno capace di garantire gli interessi italiani e occidentali nel campo del controllo dell’immigrazione e nelle politiche energetiche. Sarebbe uno stato che, comunque, non rinuncerebbe alla distribuzione della rendita petrolifera alla popolazione. Rimarrebbe in nuce il patto sociale di prima: uno stato che “corrompe” il cittadino elargendo vitalizi e beni primari in cambio di acquiescenza nei confronti della gestione del potere.
La seconda ipotesi potrebbe essere il risultato del fallimento della prima, la ricostruzione dello stato libico. Potremmo vincere la guerra, ma perdere la pace. Lo scenario sarebbe alquanto inquietante: un paese incapace di riconciliarsi, in preda, da un lato alle vendette di una parte sull’altra, dall’altro, all’incapacità di gestire la macchina pubblica. In un paese che non ha grande familiarità con le istituzioni moderne (non solo democratiche) e con la divisione dei poteri dello stato, raso al suolo dalla creazione quarantennale di utopici esperimenti politico-sociali (la Jamahiyria, la terza via, la democrazia diretta, i comitati popolari, ecc.), questo risultato non appare purtroppo tanto difficile. Inoltre, questa ipotesi potrebbe essere alimentata da un mancato pieno impegno della comunità internazionale.
Le opinioni pubbliche occidentali, per esempio, sono già parecchio stanche delle operazioni in Libia. In questo scenario farebbe proseliti l’islamismo più lontano dai valori e dagli interessi occidentali. L’impossibilità per le nuove generazioni di una partecipazione aperta alla gestione del paese li rigetterebbe nelle mani di vari gruppi estremisti, che silenziosamente si stanno riorganizzando nell’area, soprattutto in alcune città della Cirenaica, da sempre, sotto il repressivo regime di Gheddafi, serbatoio di giovani combattenti per il radicalismo religioso.
La terza ipotesi, quella di un paese diviso, potrebbe comunque prescindere dalla caduta di Muammar (o dalla sua eliminazione). Il fatto che pur non comparendo in pubblico e pur non essendoci certezza che sia ancora vivo, il regime e il suo clan, con il figlio Saif Al Islam in testa, sia ancora capace di resitere alla pressione internazionale e arginare i rivoltosi, non fa deporre a favore del fatto che la caduta di Muammar possa rappresentare la fine delle ostilità. Perché mai gli abitanti della Tripolitania dovrebbero cacciare Gheddafi per mettersi sotto i rivali della Cirenaica e sotto un ex ministro di Gheddafi “traditore”? Il problema del consenso di cui ancora gode il clan del rais è fondamentale. Il compito della comunità internazionale dovrebbe essere quello di far percepire come credibile una riconciliazione nazionale e la salvaguardia degli interessi della Tripolitania nel nuovo assetto futuro.
Se non sarà così le bombe della Nato finiranno per consentire al clan di rafforzare il proprio potere anziché indebolirlo. Il risultato sarebbe un paese spaccato a metà, scenario magari rafforzato da un possibile cessate il fuoco tra le due parti. Nella migliore delle ipotesi, quindi, ciò che si prospetta dall’intervento poco ponderato in Libia, è tanto sforzo per un risultato minino, quello che almeno non ci faccia rimpiangere il regime del passato.
* ricercatore Ispi