Scontrini finti e mafia vera sulle spiagge di Rimini

Scontrini finti e mafia vera sulle spiagge di Rimini

RIMINI – Rimini non è una città di mare. Tutt’al più, di spiaggia. Come tutti i posti in cui per le ferie si va in massa a svagarsi, si pretenderebbe che fosse in grado di far dimenticare l’Italia. Invece, attorno a quell’arenile, dell’Italia si ha un riassunto perfetto. Anzi, di più: una quintessenza. Oltre che di ombrelloni e abbronzature questo è lo sfondo naturale di rotoli di soldi dall’insolito tanfo di muffa, di scontrini fiscali fotocopiati, di gite interessate a San Marino in pausa pranzo. Di equivoci uomini del Sud che vengono «a investire». E di altri uomini del Sud che, nell’eterno gioco a guardie e ladri, cercano di combatterli.

Italianissima, Rimini lo è sempre stata. Innanzitutto per come vive con disinvoltura la sua doppia faccia di metropoli estiva e di strapaese cresciuto in fretta. E poi, per il modo con cui si è realizzata, da queste parti, l’accumulazione originaria del capitale: sostanzialmente, andando a dormire in garage per tutta l’estate, negli anni Cinquanta, e affittando l’appartamento ai turisti. Al nero, ovviamente. In dieci anni di accantonamenti si facevano i soldi per comprare un secondo appartamento, e poterne affittare due. E in altri cinque anni, c’erano i soldi per la pensioncina o l’albergo. Certo, a quel punto un po’ di tasse andavano pagate. Ma con giudizio, senza esagerare. Perché, caro Stato, caldo se ne era patito, a dormire in garage…

Ogni estate la Guardia di Finanza rafforza i controlli, «passando al setaccio – come ama scrivere nei suoi comunicati – la riviera e il territorio della provincia». La stretta arriva per tradizione in particolare attorno al Ferragosto. Anche quest’anno i controlli hanno dato i loro frutti: su 55 visite nei ristoranti sono state riscontrate 18 irregolarità; su 103 nei bar, 34 irregolarità; su 205 negli hotel, 178 irregolarità.
Quello alberghiero è indubbiamente, infatti, il settore di eccellenza dell’evasione fiscale. Nel 2011 il caso più clamoroso è saltato fuori durante i controlli a Marebello. Vale la pena riassumerlo con le stesse parole, dal tono inconfondibile, del verbale delle Fiamme Gialle: «Nel corso delle ispezioni veniva controllato un gruppo di persone che stava lasciando la struttura alberghiera dove aveva soggiornato. A richiesta dei militari, i clienti esibivano una ricevuta fiscale che, da una preliminare analisi, risultava regolarmente emessa e completa in tutte le sue parti. Eseguito l’accesso, i militari chiedevano l’esibizione delle ricevute fiscali emesse, al fine di verificarne la correttezza: tale richiesta metteva in forte stato di agitazione il titolare dell’albergo. I finanzieri, insospettiti, iniziavano minuziose ricerche, che permettevano di rinvenire una quantità considerevole di fotocopie a colori di ricevute fiscali non scritturate, con numerazione coincidente con quella rilasciata al gruppo di persone che aveva appena lasciato l’albergo».

Insomma, invece di non emettere la ricevuta, causando magari l’irritazione di qualche cliente e potenzialmente invogliandolo alla delazione (si può denunciare anche restando anonimi, al 117), l’albergatore creava numerose copie dello stesso scontrino, spacciando poi questo falso d’autore a decine di clienti. Perizia grafica, insomma. Mentre l’anno scorso c’era stata perizia informatica. Le Fiamme Gialle rinvennero un software in grado di emettere due ricevute in contemporanea: quella per il cliente, integrale, e quella che rimaneva all’albergatore – su cui pagava le tasse – con l’importo diviso per dieci. Una settimana di mezza pensione a 1.300 euro, diventava una notte con colazione a 130. E il gioco era fatto.

A ogni denuncia di evasioni, le associazioni partono in difesa dell’onor leso della categoria, sempre citando il fango, le mele marce e le facili generalizzazioni. Anche dopo il caso dello stampatore di ricevute la presidentessa del Consorzio piccoli alberghi di qualità, Anna Maria Biotti, ci ha tenuto a precisare: «Siamo gente onesta. Un pataca che credeva di fare il fenomeno ci ha rovinato tutti». In effetti, non sono solo gli albergatori a non digerire il fisco. Anche molti piccoli commercianti fanno la spola con San Marino nella pausa pranzo. Abbassata la serranda alle 13 vanno a consegnare sul loro conto estero la parte di nero della mattinata. Tanto che le banche sammarinesi di solito fanno uno strano orario d’ufficio: 12-18, oltre ad avere supercasse per il deposito automatico. 

La vicinanza con la piccola Repubblica è spesso indicata come una delle cause che facilitano o invogliano l’evasione riminese. La tentazione è lì, a quindici chilometri, di là da quella passerella con su scritto «Benvenuti nell’antica terra della libertà». Le cose sono un po’ migliorate dopo il 2009, quando l’Italia ha finalmente deciso di dare una stretta. Prima non c’erano di fatto controlli né limiti di esportazione della valuta. Adesso non si possono trasportare senza denunciarli in dogana più di cinquemila euro in contante. E quando la Guardia di Finanza si apposta lungo la provinciale, il numero di infrazioni alla norma che vengono riscontrate supera il 90 per cento. E i contravventori non sono certo solo riminesi. I galoppini arrivano da tutta Italia per cercare di parcheggiare i soldi nel quasi paradiso fiscale che garantisce il segreto bancario e che, fino a poco tempo fa, non collaborava per niente con le autorità italiane.

L’attrazione e l’incidenza del fenomeno è molto più alta rispetto al Comasco e dell’Imperiese, sfere d’attrazione, rispettivamente, di Svizzera e Principato di Monaco. Anche perché, a San Marino (32mila abitanti ma ben 30 banche e 12 finanziarie) era diffusa la pratica di creare delle società anonime, dove l’amministratore poteva essere un prestanome e l’azionariato totalmente segreto. E poi farle diventare controllanti di società italiane. A quel punto era impossibile risalire ai proprietari, anche quando era chiaro che il grosso o la totalità del business veniva fatto in Italia e non sul monte Titano.

Grosse ditte si sono arricchite grazie al fatto che nella Repubblica la tassazione è estremamente favorevole rispetto all’Italia: massimo al 19%, ma se si hanno più di cento dipendenti ci sono agevolazioni che portano l’aliquota ad appena il 5%. Questo porta ad accumulare un grosso vantaggio competitivo nei confronti delle aziende concorrenti basate in Italia. Uno dei casi più noti è quello della Karnak, che ormai da anni vince tutte le gare d’appalto, rifornendo con la propria cancelleria (penne, carta, graffette, eccetera) di fatto tutti i ministeri e gli enti pubblici della Penisola. I prezzi vantaggiosissimi, in grado di sbaragliare ogni concorrenza, derivano proprio dalla sede a San Marino. Dopo un primo accertamento fiscale del 2006, una recente indagine della Procura di Brescia ha ipotizzato che solo nel quinquennio 2005-2009 la base imponibile nascosta dalla rete degli agenti di vendita Karnak in Italia sarebbe stata pari a 81,5 milioni, per un omesso versamento (Iva, Irap, imposte dirette) di oltre 29 milioni. Circostanza smentita con forza dall’azienda che sostiene di aver sempre rispettato tutte le le leggi, sammarinesi e italiane. Il tribunale di Rimini ha invece condannato, in primo grado, il 29 aprile scorso, i titolari e alcuni dirigenti della società a un anno e otto mesi di reclusione per evasione fiscale attraverso la presunta estero vestizione e omessa dichiarazione dei redditi relativi agli anni 2002, 2003 e 2004. Sono stati dichiarati prescritti gli addebiti relativi agli anni 2000 e 2001.

A fidarsi delle classifiche, Rimini è una città povera. Anche il contributo di solidarietà, la cosiddetta tassa sui ricchi introdotta con la manovra bis (dai 90mila euro di reddito in su) la dovrebbero pagare in pochi: 1.222 persone (su 143.321; lo 0,8% della popolazione). Il che ne fa, in ogni caso, la ventinovesima città più tartassata. A Rimini su 45 mila partite Iva, solo 293 hanno un fatturato superiore a 5 milioni di euro, neanche un migliaio sono tra i 2 e i 5 milioni, quasi il 98% sono sotto i due milioni. Eppure al nuovo porto turistico aumentano sempre più i grossi yacht battenti bandiera sammarinese (i proprietari vengono da un po’ tutto il Nord), acquistati in leasing (altro modo di eludere). Il benessere appare evidente. E quando i ladri delle ville (sempre attivissimi con l’alta stagione) fanno i loro colpi vengono denunciati bottini (in contante) spesso superiori ai trentamila euro. Per loro, ormai, molto meglio fare i topi d’appartamento che non affrontare il rischio di una rapina in banca dove, tra cassaforti temporizzate e telecamere a circuito chiuso, se va bene si portano via un paio di migliaia di euro.

E così questa è anche la terra di enormi quantità di contante, mezzo di pagamento preferito in ogni transazione. Qualche tempo fa in una banca sammarinese arrivò una grossa quantità di banconote dal Sud. Gli impiegati ricordano ancora il tanfo di muffa. I soldi erano evidentementi stati parcheggiati a lungo in qualche scantinato, prima di prendere la via della riviera romagnola e dell’Antica terra della libertà. In effetti, la combinazione di ricchezza e vicinanza strategica con San Marino sta invogliando la malavita organizzata che ha iniziato a fare di Rimini una delle sue terre d’elezione per il riciclaggio. Non è del tutto una novità visto che già negli anni Sessanta si contarono alcune presenze, legate sopratttutto al controllo delle bische clandestine. Ma la vera crescita c’è stata con il nuovo millennio, come hanno dimostrato alcune inchieste importanti, prima fra tutte quella denominata Vulcano. Ormai è provata agli atti la presenza in città sia della ’Ndrangheta che dei Casalesi (Camorra).

Del resto, secondo l’antica regola (del capitalismo e delle mafie) «i soldi vanno dove stanno i soldi». Certo qui non siamo al controllo capillare del territorio, né, almeno per ora, ci sono stati comuni sciolti per mafia (come invece è successo in Piemonte, Lombardia e Liguria), ma nemmeno si può più parlare di semplici infiltrazioni. La presenza è ormai stabile e ben strutturata. E insidiosa per due motivi. Primo, perché ancora non ci sono né la consapevolezza diffusa né le capacità investigative (anche se uomini importanti delle varie forze dell’ordine sono stati spostati dal Sud) per capire e affrontare appieno il fenomeno. Secondo, perché la presenza, per ora è, per così dire, asintomatica. Non ci sono danneggiamenti, non ci sono attentati dinamitardi. E anche non escludendo che ci siano fenomeni di pizzo, non si riscontrano quei fatti che palesano il racket tipici del Sud (macchine ed esercizi incendiati, avvertimenti tipo la colla nelle serrature…). C’è stato un solo morto ammazzato, alla Pinarella di Cervia. E una sola sparatoria per il controllo del territorio, nella centralissima via Ceccarini, a Riccione. Se gli scontri sono così pochi è anche perché le risorse non sono finite. La ricchezza è talmente tanta che giro ce n’è per tutti, non occorre farsi la guerra.

Di solito la malavita qui viene per riciclare. Va dall’albergatore e gli chiede “A quanto vendi il tuo hotel?”. Lui: “Per non meno di un milione”. “Ok, io te ne do due subito, in contanti. Tu resti padrone, non cambi niente. La tua vita è quella di prima, ma io mi prendo i ricavi”.
Più spesso gli emissari si propongono come agenzia di recupero crediti. Sono molto efficienti. Man mano crescono nell’azienda. Si propongono come soci. Hanno molta liquidità e gli imprenditori li accettano spesso di buon grado. Ma poi si ritrovano in un giro più grande di loro. Iniziano a subire richieste che diventano estorsive. O si indebitano con il “socio” a tassi usurari.

Da queste parti si ripete che la cittadinanza «ha gli anticorpi» contro la mafia. Ma è vero fino a un certo punto. Certo, se paragonata a Palermo o a Reggio Calabria, Rimini è un paradiso. Anche perché manca tutta la componente autoreferenziale della mafia. Il prestigio/potenziale intimidatorio che nel Meridione deriva semplicemente dal presentarsi come appartente a una data famiglia. Ma il fenomeno è troppo sottovalutato per non preoccupare. Senza le prostitute, le caserme potrebbero forse chiudere, perché il grosso delle chiamate e delle proteste e del disagio e dell’insicurezza percepita è riservato alle ragazze che battono sui viali (per lo più romene e ungheresi e in gran parte, secondo gli inquirenti, “volontarie”, estranee cioè a giri strutturati di sfruttamento e ancor più a fenomeni di tratta degli esseri umani). Le emergenze sarebbero altre, ma non se ne parla perché è scomodo. E perché, per fare davvero la lotta al riciclaggio e alle infiltrazioni mafiose, bisognerebbe dare una stretta che stride col desiderio di lasciare tutto in quel limbo un po’ torbido che permette a tutti di evadere. E di portare in pausa pranzo il nero della salumeria a San Marino. E di stampare le ricevute false o falsificare gli statini di pubblica sicurezza degli hotel (anche grazie a un ritardo di dieci anni, da poco sanato, nell’informatizzazione obbligatoria). E di farsi il Suv. Da parcheggiare nel garage dove si dormiva negli anni Cinquanta…