Quanta nostalgia di quando c’era la Padania…

Quanta nostalgia di quando c’era la Padania…

Niente è più consolatorio della nostalgia, e tra le più struggenti c’è quella per le patrie belle e perdute. Al catalogo può ormai aggiungersi la saudade per la Padania. Terra che è esistita eccome, prima di crollare come un’Austria-Ungheria qualsiasi, come un’Unione Sovietica del leghismo rampante.

Poco più di un anno fa, al massimo del suo splendore, tutti dicevamo che il suo partito unico, la Lega Nord, era «l’ultimo movimento leninista», l’ultimo «a far politica», l’ultimo «radicato sul territorio», l’ultimo «capace di interpretare il volere della gente», della «sua gente», e di darle voce grazie «alle qualità empatiche del Capo».

E la Padania si espandeva. Cresceva sempre più a Sud, lontano dal fiume sacro. Tanto che oggi, come in tutti gli Imperi che crollano repentini, sono proprio in quelle terre lontane, tra chi regge gli avamposti, i più increduli delle notizie sul potere che si disintegra dove lo si giurava eterno. Dei litigi di Varese, di Brescia, del Veneto. Di certi congressi dove accade l’inimmaginato. O da cui filtra all’esterno quello che sempre si era tenuto nascosto. Dello tsunami di palude romana che ha lasciato pozzanghere ovunque nel Lombardo-Veneto.

I cremlinologi della Lega Nord arrancano nelle analisi. Forse un giorno si scoprirà che tutto era più banale di quanto si è scritto. Intanto la Padania appare come un ieri più rassicurante di questo domani.
Cosa ne sarà delle «terre e dei popoli padani» adesso che niente è stato  risolto? Come vent’anni fa, come agli inizi, tutto appare identico, immutabile. Che ne è stato del sogno del federalismo (per non dire della secessione)? Che ne è stato del controllo dell’immigrazione? E della riduzione del carico fiscale? E soprattutto: dove finirà il leghismo di tutti quelli che sono stufi della Lega Nord?

La Padania dei «fratelli su libero suol» va a pezzi. I veneti e i lombardi, i bergamaschi e i varesotti, quelli che a Varese stanno con Maurilio Canton, segretario voluto dal Capo, e quelli che gli attaccano contro, per le strade, striscioni d’infamia. Un Canton che nemmeno è stato eletto per acclamazione, ma decretato d’ufficio al termine di un congresso in cui i giornalisti sono stati tenuti fuori ma dove – da fuori – si sentivano le urla.

Non saranno pochi gli orfani della Padania, e non tutti leghisti. Forse ci sarà anche qualche avversario a dolersi, a trovarsi privato di un nemico abbastanza caricaturale. Tra chi milita o simpatizza per il partito unico padano, quello della Padania resterà il tempo in cui si era giovani e si andava a Pontida a cantare a tutto fiato: «Meglio senza sole, /meglio senza mare /che, meridionale!». Il tempo in cui, insomma, «ci credevamo davvero». Resterà il ricordo di un’epoca in cui si poteva essere al governo a Roma e antiromani (prima ancora che anti-Sud) al Nord. Il ricordo dorato di un periodo in cui si erano rotti gli ormeggi del vecchio, imbastito, linguaggio del Palazzo. E si era fatto dell’immensa maleducazione un gesto politicamente rivoluzionario e psicologicamente liberatorio. Che spartanemente spazzava via la discussione inutile col rutto e con il dito medio.

In altri ambiti i lasciti sono stati minori. Pittura e scultura non si sono molto sviluppate in Padania, nonostante gli sforzi di Arte Nord. Il cinema ha avuto il suo capolavoro nel Barbarossa di Renzo Martinelli. Deriso allora, sarà prima o poi rivalutato dalla critica. Nell’illustrazione politica non è andata male. Un Rodčenko non è nato, ma certi manifesti saranno comunque ricordati a lungo.

La Padania è stata, con tutti i suoi limiti, una realtà mediamente nordica, economicamente omogenea, ricca e senza più voglia di dover spartire con altri (un Meridione arretrato, un immigrato clandestino…) le sue ricchezze. Nella contrapposizione tra «noi» e «loro» e tra «centro» e «periferia» ha trovato un’identità comune in grado di superare diverse baruffe di campanile. Ha preso un concetto alto, complesso, della scienza politica – il federalismo – e ne ha fatto uno slogan semplice e duraturo. Tanto duraturo da non essere mai realizzato. Aveva il suo imperatore e anche un erede al trono, nei confronti del quale (destino di gran parte degli eredi al trono) potevano essere tollerate burle impensabili nei confronti dell’antenato.

Il punto di forza della Lega Nord è stato a lungo l’indeterminatezza. Attorno a quattro o cinque temi fissi ruotava un assetto variabile e riaggiornabile. Senza che le contraddizioni saltassero mai all’occhio dell’elettore. Adesso che il ministro della repubblica italiana Bossi sbadiglia quattordici volte alle spalle di Berlusconi alla vigilia dell’ennesima fiducia, restando fedele all’alleato davanti a tutto e a ogni costo (compreso il voto per salvare il ministro Saverio Romano, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa), la realtà di questa indivisibile Italia in crisi ha per sempre offuscato l’epoca d’oro della Padania che fu. E che ebbe il suo punto di forza nell’irrealtà quotididiana, che sostituiva ogni utopia ma anche ogni avventura violenta. Si potevano evocare i fucili o la rivoluzione, senza problemi e senza conseguenze. Si poteva avere una squadra di calcio e un giro ciclistico. Si poteva attendere per sempre il federalismo e si poteva gridare contro gli immigrati degli altri e far lavorare «i nostri» nella fabbrichetta.

Forse i leghisti hanno ragione quando, come ieri sul loro giornale (che ancora si chiama come la Padania che fu), scrivono: «Una strategia da bar Sport. Certe analisi giornalistiche sul nostro movimento fanno davvero sorridere. Gli osservatori e gli intellettuali, soprattutto di sinistra, si concentrano sul Carroccio per cercare di depotenziarlo mediaticamente». Forse certe analisi sono impietose e il partito, sia pure in crisi, è in grado di reggere l’urto delle urne, perdendo voti ma restando in piedi (anche se fino a un anno fa si parlava di una crescita al 15 per cento e ora i sondaggi lo danno in caduta libera ben sotto al 10). Una squadra di leghisti sarà sicuramente ancora eletta a lungo in Parlamento. Ma cosa li aspetta in questo eterno panorama italiano, in questo clima definitivo da post Padania? Non potranno che godersi il loro esilio. Lontani dal Nord. Per sempre a Roma. 

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