Affari e politica, ecco cosa c’è dietro alle bombe in Nigeria

Affari e politica, ecco cosa c'è dietro alle bombe in Nigeria

Non sono i cristiani lʼobiettivo dei sanguinosi e ripetuti attacchi della setta Boko Haram, ma la Nigeria stessa. Dipinto spesso dalla stampa internazionale come un gruppo terrorista di matrice islamica, impegnato in una sorta di crociata religiosa, Boko Haram col passare del tempo si sta confermando come il gruppo armato che più di ogni altro è stato finora in grado di lanciare una sfida allo stato centrale nigeriano, al suo esercito e alla sopravvivenza stessa del più popoloso, nonché complesso, Paese del continente africano.

A sostenerlo, qualche giorno fa, è stato anche il presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan, che in una cerimonia pubblica ha definito Boko Haram una minaccia al Paese e allʼunità nazionale «peggiore di quella vissuta durante la Guerra civile», o della guerra del Biafra, degli anni ʼ60. Parlando di fronte a una platea di militari, in occasione della festa delle forze armate, il presidente ha affrontato, infatti, la principale ragione che rende Boko Haram una minaccia così grave: le collusioni del gruppo con pezzi della politica e dellʼeconomia nigeriana. «Alcuni di loro si trovano nel braccio esecutivo del governo, altri in quello parlamentare legislativo, altri ancora in quello giudiziario. Alcuni sono nelle forze armate, nella polizia e nelle agenzie di sicurezza» ha detto Jonathan, confermando le voci in circolazione da tempo nel Paese secondo cui Boko Haram viene usato da «politici usciti sconfitti dalle elezioni» per fare pressioni sul governo o per mandare messaggi ad avversari.

Mai prima dʼora, ricorda lʼimportante quotidiano nigeriano This Day, unʼalta istituzione nigeriana aveva apertamente, ufficialmente e pubblicamente affrontato il rapporto tra Boko Haram, la politica e le istituzioni nigeriane. Parole, quelle del capo di Stato, che confermano le analisi, in circolazione già da circa un anno e mezzo, di chi ritiene che dietro Boko Haram vi siano alcuni politici del nord (inclusi alcuni dello stesso partito di governo) impegnati negli ultimi anni ad alimentare (con finanziamenti, armamenti e coperture) questo movimento armato. Dietro questo sostegno si troverebbe il malcontento di ampi settori dellʼestablishment (politico, militare, economico) del Nord della Nigeria per gli accordi raggiunti durante il passaggio di consegne tra lʼex presidente Umaru YarʼAdua (poi deceduto per ragioni di salute) e lʼattuale Goodluck Jonathan, che ne era il vice.

Un passaggio di poteri, suggellato da primarie ed elezioni, che però non avrebbe garantito quel complicato e delicato sistema di bilanciamento di interessi economici e politici tra le varie zone del Paese più popoloso dellʼAfrica con i suoi 160 milioni di abitanti. La Nigeria, infatti, è tante cose. È il settimo più grande paese del pianeta, è una potenza regionale del continente africano, può contare su uno dei più grandi e attrezzati eserciti dellʼAfrica (in un Paese per anni governato dai militari ancora oggi alla Difesa è destinato il 25% del bilancio nazionale a fronte del 90% della popolazione che vive con circa 2 dollari al giorno), ed è uno dei principali esportatori di petrolio del pianeta, nonostante problemi e infrastrutture ormai datate.

Ma la Nigeria è anche un Paese con un immenso potenziale agricolo da sfruttare (decine di milioni di ettari di terreni inutilizzati o sottoutilizzati che fanno gola a molti) e su cui il governo sembra aver deciso di tornare a puntare per lo sviluppo futuro dellʼeconomia, ridisegnando una fase economica post idrocarburi da attuare nei prossimi 30 anni, che però sembrerebbe anche rimettere in gioco i fragili equilibri che finora avevano retto il Paese. Insomma, un complesso caleidoscopio di fattori politico-economici che i media hanno semplificato in questi ultimi anni con il binomio nord musulmano contro sud cristiano.

Eppure la componente etnico-religiosa, seppur non determinante come ritenuto dai media mainstream, non si può escludere del tutto, in una nazione dove i processi politici e democratici sono ancora “giovani” – va ricordato che lʼultima dittatura militare si è conclusa nel 1999 – e dove lʼaggregazione politica, soprattutto nelle aree più depresse e tra le classi più semplici, può avvenire proprio facendo leva sui più semplici connotati comunitari o le distinzioni di credo.

Secondo lo storico dellʼuniversità nigeriana di Lagos Rufus Akinyele, il problema fondamentale non sono tanto lʼetnicità o la religione quanto piuttosto la politicizzazione e lʼuso strumentale di questi aspetti: «etnicità e religione, per il loro essere onnicomprensive e per la loro natura fortemente emotiva, sono divenute comode piattaforme per la mobilitazione di massa nelle mani della classe politica». È in questa chiave, quindi, che vanno letti anche i recenti attentati (da quelli di Natale a quelli dei giorni scorsi) che vedono gli uomini di Boko Haram prendere di mira strutture ed elementi delle forze di sicurezza (esercito, polizia, forze speciali, agenzie di sicurezza) e chiese o altri obiettivi “cristiani”.

In alcune zone della Nigeria dichiararsi “cristiano” o “musulmano” è più indicativo di una precisa appartenenza politica che della propria identificazione religiosa. I “cristiani”, intesi non come la comunità dei fedeli, ma come il bacino elettorale del signorotto locale, diventano quindi bersaglio legittimo di una battaglia politica che si combatte anche con le armi. Gli attacchi rivendicati da Boko Haram contro le chiese nel giorno di Natale, ad esempio, vanno letti in unʼottica diversa da quella presentata dai media. Nei giorni precedenti le festività cristiane, politici locali e nazionali avevano ripetutamente e con forti toni retorici garantito che i fedeli di Gesù Cristo avrebbero trascorso in totale sicurezza le proprie feste e che la minaccia di Boko Haram era ormai stata disinnescata da una serie di “vittoriose” operazioni militari in alcune delle principali roccaforti. In tutta risposta il movimento ha lanciato una serie di attentati coordinati in varie zone del Paese, proprio quelle dove era stata pubblicamente garantita la sicurezza. Un chiaro messaggio da parte del gruppo ad attori interni e internazionali per ribadire la propria forza e la propria determinazione.

I ciclici e terribili attacchi coordinati avvenuti ripetutamente negli ultimi mesi dimostrano il fallimento della strategia adottata finora dal presidente Jonathan, che da un lato ha cercato di minimizzare il problema evitando un qualsiasi tipo di negoziato o dialogo con i membri del gruppo radicale e dallʼaltro ha impostato la risposta unicamente sulla repressione militare degli appartenenti, affermando più volte che il problema di Boko Haram «è in via di soluzione». Ma cosa vuole Boko Haram? Se la base del movimento – il cui vero nome è “Ahlan Sunnah Lid Daʼwaati wal Jihad Yaanaa”, ma conosciuto dal popolo e ora anche dalla comunità internazionale col termine in lingua hausa “Boko Haram”, ovvero “lʼeducazione occidentale è peccato” – sostiene di reclamare lʼapplicazione della Sharia, i suoi potenti “sponsor” chiedono di sedersi a un tavolo col governo per negoziare maggiori spazi di potere e maggiori introiti.

Non è un caso se nel messaggio video diffuso qualche giorno fa per rivendicare le violenze di Nataleda Abubakar Shekau, sedicente nuovo capo del movimento, dopo aver affermato che lʼesercito nigeriano non riuscirà mai a sconfiggere il gruppo militarmente, lʼesponente di Boko Haram sembra aprire alla possibilità di un dialogo con lʼesecutivo nigeriano, precisando che i «colloqui col governo potranno avvenire solo secondo gli insegnamenti dellʼIslam».

*direttore di Atlas, primo quotidiano di Esteri italiano che ha proprio nell’Africa e l’area mediterranea il suo punto di forza
 

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