«Italy is back». LʼItalia è tornata, così sanciva lʼattacco del pezzo di Philip Stephens sul Financial Times di venerdì scorso. LʼItalia, in sintesi, sarebbe tornata a giocare un ruolo consono alla propria importanza e al proprio peso nel quadro europeo: la terza economia del continente (tenendo fuori la Gran Bretagna). Il presidente del consiglio italiano, Mario Monti, è tornato a prendere parte ai vertici ristretti con il presidente francese e il cancelliere tedesco, fugando una delle storiche paure italiane, quella della marginalizzazione. È tornato nei circoli che contano e al contempo lʼItalia è una voce autorevole, e ascoltata.
Non bisognava aspettare lʼarticolo del Financial Times per accorgersi dellʼautorevolezza del nostro presidente del consiglio. Ma una prima riflessione si pone oggi sulla politica estera italiana e sulla percezione che gli altri attori internazionali hanno del nostro Paese. Qui non è più un fatto personale. È lʼesame dei limiti e degli spazi di manovra di quella che dovrebbe essere una “media potenza” come lʼItalia. Certamente Monti appare più credibile di Berlusconi, o perlomeno, dellʼultimo Berlusconi. Certamente il lavoro straordinario compiuto in sede europea negli ultimi mesi è supportato dalle scelte di altrettanta straordinarietà e rigore imposte da Monti in patria e apprezzate dai nostri partner. Certamente Monti – che incontrerà Obama oggi a Washington – potrà aprire un nuovo capitolo delle relazioni con gli Stati Uniti, ancora, nonostante tutto, il nostro grande referente internazionale. È anche vero che Berlusconi e Obama non si sono mai presi, ancora prima dello scoppio degli scandali vari che hanno coinvolto lʼex presidente italiano: almeno fin dallʼaprile del 2009, quando nel suo tour europeo il presidente statunitense aveva evitato di incontrare Berlusconi. Per Monti sarà lʼultimo e decisivo passaggio di ri-accreditamento dellʼItalia sulla scena internazionale.
Certamente questo governo – senza annoiare con le solite fesserie su Trilateral Commission e Bildenberg Club, avvalorandoli di poteri che non hanno – nasce con una dose “congenita” e quasi naturale di atlantismo. Basta guardare ai curricula dei tre esponenti più importanti: Monti, Terzi di SantʼAgata e Di Paola. Il fatto è che quando lʼItalia deve ripartire si affida nel reset alle direttrici fondamentali e indispensabili del Paese: lʼancoraggio atlantico e il ritorno alla centralità dellʼEuropa. Questi legami infatti, più di altri, si erano logorati negli ultimi anni e questi andavano e vanno rinsaldati. Il rilancio della “casa” europea è visto dallʼItalia, storicamente – e ancora di più in questa fase – come unʼopportunità di conservare il proprio rango come membro di piano di uno dei poli potenziali del ventunesimo secolo.
LʼEuropa e il legame transatlantico suppliscono a due carenze caratteristiche. La prima è quella relativa alla definizione dellʼinteresse nazionale e alla sua concezione, che ancora, rimane un tabù in Italia. La seconda è quella relativa al fatto di non aver mai risolto chiaramente la questione dello status (ultima tra le grandi o prima tra le piccole potenze?). Dopo aver conquistato lo status di ultima tra le grandi a cavallo tra Ottocento e Novecento e dopo il velleitario ventennio fascista, sono state le istituzioni internazionali, sotto egida americana, e quelle europee a fornire uno status allʼItalia repubblicana, capace talvolta anche di allentare i vincoli di fedeltà a favore dei propri specifici interessi.
Oggi la “ritirata strategica” statunitense dai pericoli di over-strechingin alcune aree mondiali, tra le quali, lʼarea mediorientale, con un più attento esercizio degli impegni rispetto alle risorse, sembra aprire la strada a nuovi equilibri. AllʼItalia in particolare, per la sua configurazione geostrategica, dovrebbero “naturalmente” spettare compiti crescenti, se non fosse che lʼItalia, al di là di Monti, attraversa un momento particolarmente debole sia dal punto di vista economico, per il protrarsi di una crisi che sembra colpire specificamente il Paese, sia dal punto di vista politico, per lʼinvoluzione del quadro interno.
Questa situazione contingente si inserisce nella progressiva perdita di rilevanza strategica che lʼItalia ha assunto agli occhi del grande alleato statunitense nellʼultimo ventennio. Se, infatti, lʼItalia durante lʼepoca bipolare si trovava ai confini della sfera dʼinfluenza statunitense – avanguardia e insieme barriera degli interessi e dei valori occidentali in Europa e nel Mediterraneo nel costante confronto con la minaccia sovietica – nel ventennio seguente ha perso questa centralità geopolitica, “superata” dallʼespansione della democrazia in Europa e dalla asimmetrica guerra al terrorismo.
LʼItalia è spesso riuscita nel corso di decenni a conciliare due esigenze entrambe fondamentali: la necessità di buone relazioni con paesi per essa strategicamente rilevanti come Libia, Iran, Russia, ma politicamente sensibili alla sfera dʼafferenza atlantica e la piena appartenenza proprio al campo atlantico ed europeo. Non senza complessità la politica italiana è stata improntata a giocare il ruolo di mediatore, di “ponte” tra le due parti, con lʼobiettivo di poter rafforzare il proprio ruolo con lʼalleato maggiore, gli Stati Uniti, e nella cornice europea, grazie allʼofferta di un rapporto privilegiato con un partner esterno allʼalleanza. In questʼottica Berlusconi, che pure ha ottenuto risultati molto importanti nei rapporti bilaterali con i paesi esterni, ha costruito ponti troppo fragili e anziché valorizzare i legami particolari con questi paesi li ha esposti alle gelosie dei partner europei.
Al di là delle mosse del governo Monti, che con le azioni diplomatiche in Europa, Stati Uniti e Mediterraneo sembra cercare di ricostruire questi ponti, permane lʼincognita se lʼItalia -visti i mutamenti di scenario internazionale e la debolezza del Paese destinata a durare almeno per qualche anno- avrà ancora la forza di giocare un ruolo internazionale rilevante per lʼalleato maggiore. Forse quel gioco era possibile solo negli stretti schemi bipolari quando lʼItalia aveva un valore intrinseco e gli venivano concesse “scappatelle”. Forse in un mondo più multipolare conta meno il campo di appartenenza e conta di più la gestione delle proprie limitate capacità di esercitare potere. Stephens nel suo articolo segnala che Obama sembra molto favorevole allʼazione di Monti con la Merkel per lʼattuazione di misure che non siano una “azione suicida” di austerità senza limiti, e sembra suggerire che, nellʼincertezza elettorale francese e nellʼauto-esclusione britannica dallʼEuropa, lʼItalia possa tornare “pivotal” per gli Stati Uniti. Seppur difficile da perseguire, Monti cercherà di cogliere il suggerimento del Financial Times?
*Ricercatore all’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi)